ACAB, recensione della serie Netflix: Gli uomini, oltre la divisa
Dopo il film del 2012 diretto da Stefano Sollima, l'universo dell'opera letteraria di Carlo Bonini di espande con una serie che ha l'opportunità di approfondire la psicologia dei singoli personaggi, vero punto di forza di questo nuovo racconto: la nostra recensione.
Un titolo, una provocazione. ACAB (All Cops Are Bastards) torna sotto forma di serie tv su Netflix dopo un film coraggioso che nel 2012 segnava l'esordio alla regia sul grande schermo di Stefano Sollima. La serie, lunga 6 episodi e ispirata sia al film che al romanzo di Carlo Bonini (co-creatore insieme a Filippo Gravino), continua a raccontare le vicende di una squadra di poliziotti del Reparto Mobile di Roma. Un'operazione che si configura ancora delicata, tanto più perché trova eco nei fatti di cronaca più recenti che hanno riportato le forze dell'ordine sotto i riflettori. Ma, come il film, anche la serie prodotta da Cattleya non teme di superare certi confini ponendo lo spettatore dinanzi a un urgente interrogativo, che poi è il perno che fa girare l'intera storia: fino a che punto possiamo giustificare la violenza?
ACAB: Essere celerini, tra pubblico e privato
ACAB prova a raccontare il difficile lavoro dei cosiddetti celerini, quei poliziotti che sono tenuti a mantenere l'ordine pubblico, a placare le piazze potendo contare sul monopolio della violenza affidata a loro dallo Stato. Tutto parte da una notte di scontri in Val di Susa che porta al ferimento del capo di una squadra del Reparto Mobile di Roma (Pietro Fura interpretato da Fabrizio Nardi). Quella di Mazinga (Marco Giallini, interprete dell'unico personaggio che torna dal film), Marta Sarri (Valentina Bellè) e Salvatore Lovato (Pierluigi Gigante), tra gli altri, è però una squadra che si sente quasi una famiglia e che è disposta a usare anche le maniere forti quando si tratta di proteggere un collega. Quando arriva un nuovo comandante, Michele Nobili (Adriano Giannini), che crede fermamente nell'osservanza della legge senza abbandonarsi alla violenza fine a se stessa, la squada si scontra con una nuova visione riformista che non tutti sono capaci di abbracciare. Intanto la società diventa sempre più critica verso le istituzioni e pronta a scendere in piazza contro quei poliziotti ritenuti, semplicemente, tutti bastardi.
Ma chi sono questi agenti, oltre la divisa? ACAB ci mostra anche il loro privato, i loro conflitti: il ruvido Mazinga che ha un rapporto complicato con il figlio, Nobili che deve rimettere in discussione le sue convinzioni quando il caos travolge la sua famiglia, Marta Sarri che vuole proteggere sua figlia da un ex violento, Salvatore Lovato che è incapace di intrattenere relazioni fuori dalla caserma. Gli autori (Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini) si soffermano su quella linea di confine che muove la violenza, tra pubblico e in privato: in che modo i conflitti familiari influiscono sulle azioni che questi agenti compiono quando sono in servizio? E, allo stesso modo, può quella violenza condizionare anche i sentimenti e la sfera più intima dei protagonisti?
Il racconto 13 anni dopo il film
La serie ha avuto l'opportunità, unica, di aggiornare la narrazione del film mostrando anche l'evoluzione del corpo di Polizia, le innovazioni che in questi anni hanno portato a una riforma dello stesso. Centrali, anche ai fini del racconto, sono per esempio le bodycam che vengono installate sulle uniformi degli agenti. Il personaggio di Michele Nobili, poi, incarna quella nuova fronda della polizia, più democratica, che cerca di arginare il caos con l'ordine e senza ricorrere a metodi estremi. Dal 2018, inoltre, anche le donne sono state ammesse nei reparti mobili e il personaggio di Marta Sarri testimonia questa piccola grande rivoluzione. Valentina Bellè interpreta magnificamente una donna dalla scorza dura, che ha deciso di rinunciare alla sua femminilità per essere presa sul serio in un contesto dominato da maschi.
La recensione di ACAB
Anche agli altri membri del cast va riconosciuto il merito di aver saputo trasmettere ciò che non è scritto nel copione, recitando molto con lo sguardo e la postura del corpo. La regia di Michele Alhaique asseconda, con primi piani ben costruiti, l'umanità dei protagonisti. Le luci sono spesso fioche, poco nitide. La colonna sonora - a cura dei Mokadelic - è fatta di musiche dai ritmi cadenzati, diremmo da caserma. Il risultato è un caleidoscopio di conflitti interiori che mettono costantemente lo spettatore davanti a dilemmi morali impossibili da risolvere. Non c'è il tentativo, da parte degli autori, di criminalizzare o assolvere i protagonisti. Nonostante tutto, non si può rimanere indifferenti di fronte alla violenza. Da qualsiasi parte provenga.
- Giornalista professionista
- Appassionata di Serie TV e telespettatrice critica e curiosa