Zona d'ombra: la recensione del film con Will Smith
Grandissima performance dell'attore ingiustamente escluso dalla corsa all'Oscar in un film efficace e necessario.
Vanto e orgoglio degli States ed espressione dell’american way of life nonché fabbrica seriale di sogni, il football rivela la sua pericolosità e la sua insospettata natura di strumento di morte in un film che porta Peter Landesman a sbattere un mostro in prima pagina e a superare, come già aveva fatto con la sceneggiatura del discreto La regola del gioco, l’impasse in cui era caduto all’indomani dell’esordio Parkland, che raccontava la morte di JFK da un’insolita prospettiva ma mancava della giusta coesione.
Se paragonata a quest’ultimo - a anche di per sé - Zona d’ombra è un’opera efficace e necessaria, che nuovamente tradisce l’esperienza di giornalista d’inchieste di colui che lo ha diretto nella determinazione con cui punta al suo obiettivo: schiaffeggiare il sistema, stavolta sotto forma di uno dei business più redditizi di sempre. Nel denunciarne le aberrazioni, in un attacco frontale ma non virulento, per fortuna il regista non rifà Il caso Spotlight né si affida a un documentario travestito da opera di finzione, perché a lui che di realtà ne ha vista fin troppa interessano di più l’invenzione, l’ampio respiro e il gioco dell’attore, che poi è l'elemento che solitamente regge un film e che in questa storia vera sostiene il peso di un’immensa disperazione tenuta nascosta: quella di chi muore suicida non per follia ma per cause organiche.
L’attore in questione è Will Smith e permetteteci subito di dire una cosa: dopo averlo visto interpretare il patologo forense nigeriano che scoprì la CTE, abbiamo capito un po’ di più le rivendicazioni del gruppo Oscar So White, che lamentava la sua esclusione dalla rosa dei candidati all’Academy Award. Il Deadshot di Suicide Squad, infatti, ci regala una performance intensa e accurata, che rende giustizia alla nobiltà d’animo di Bennet Omalu, alla sua pignoleria e anche alla sua mitezza, perché è bello che un eroe sia garbato, modesto e a suo modo perfino ingenuo. Certo, dietro alla gentilezza del medico africano intravediamo la cieca fiducia, targata Scientology, che Will ripone nell’umanità e che lo ha reso per breve tempo impopolare, ma in questa occasione, lui che che ama tanto il football ha vacillato davvero di fronte a Zona d’ombra, per poi sposarne l’intento trasformando il tardivo innamoramento in dedizione al ruolo e quindi in verità. Proprio in nome di tale sincerità, la macchina da presa di Landesman non lo abbandona mai, contemplandolo estasiata e avvicinandosi spesso al suo viso. Gli contendono la scena Albert Brooks e Alec Baldwin, che se la cavano egregiamente, mentre appare non abbastanza sfruttata, magari perché al servizio di un personaggio che sa di già visto (la moglie sempre e comunque solidale) Gugu Mbatha-Raw, che tuttavia si lascia dietro una scia di dolcezza.
E’ importante che ci sia dolcezza in Zona d'ombra, visto che è amara, molto amara, l’incursione, nemmeno troppo in sordina, nella zona grigia di quell’America che non accetta i perdenti e i santi caduti in disgrazia e che li lascia vivere in automobili scassate parcheggiate in zone di periferia. Sono i nuovi poveri, li conosciamo bene, ed è meglio che restino ai margini, perché riflettono l’immagine di un fallimento generale. Peter Landesman li sfiora appena, poi passa ad altro, a sequenze da thriller per esempio, con misteriosi visitatori notturni e inseguitori alla guida di macchine sospette. Non ce ne sono molte, ma non funzionano completamente, ed è in simili momenti che viene naturale pensare a Insider di Michael Mann, al suo rigore e alla sua totale assenza di sbavature. Anche là recitavano dei mostri sacri, ma l’impressione era di trovarsi di fronte a un film poco star-driven e per niente preoccupato di non piacere al pubblico perché forte della consapevolezza di trattare un tema urgente. Anche la CTE di Omalu ha una sua urgenza e forse non c’era bisogno di aggiungere tensione, perché ciò che è accaduto ai giocatori degli Steelers potrebbe succedere ad altri, fintanto che uomini grandi e grossi continueranno a prendersi a testate in un campo d’erba proprio come tori, bufali e cinghiali.
Ispirato a un articolo scritto su GQ dalla giornalista Jeanne Marie Laskas, Zona d’ombra non è il classico film sportivo che risulta indigesto praticamente ovunque tranne che negli Stati Uniti. E’, come già detto, una spallata al sistema e una preghiera rivolta ai dispensatori del sogno americano di non deludere le aspettative e mortificare il senso di appartenenza di chi abbandona terre di guerra e di intolleranza per approdare nel paese delle infinite opportunità. Infine, il secondo lungometraggio di Landesman è la dimostrazione di come un problema complicato (in questo caso medico-scientifico) possa essere spiegato con estrema chiarezza.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali