The Legend of Tarzan: la recensione del film d'avventura con Alexander Skarsgård e Margot Robbie
Messaggio progressista e di decrescita, per un film dove Tarzan è sempre combattuto e imbrociato.
Com'è tormentato e musone, questo Tarzan.
Il Tarzan che ha il fisico scolpito di un Alexander Skarsgård che ha conservato tutto il languore corrucciato e malinconico dell'Eric di True Blood; il Tarzan che non sorride mai, se non alla fine del film, quando si scioglie e scioglie le sue tensioni in un abbraccio liberatorio; il Tarzan che si muove nella giungla esattamente come lo Spider-Man del cinema si muove tra i grattacieli di Manhattan.
Il Tarzan di David Yates che racconta un po' al contrario la storia di Greystoke – La leggenda di Tarzan.
Qui John Clayton lo incontriamo già civilizzato, ma già in lotta con sé stesso per cercare di rinnegare razionalmente le sue origini e la sua natura selvaggia e di dimostrare a sé e agli altri che casa sua non è l'Africa ma la dinamica e un po' ingessata Londra di fine Ottocento.
Ma tanto, se il Mal d'Africa è inguaribile per le persone normali, figuriamoci se lo è per John, che – come dice la sexy Jane di Margot Robbie, che sbandiera di non voler essere una damsel in distress ma che di fatto lo è per tutto il film – una persona normale non lo è affatto.
E allora via, ogni pretesto è buono per tornare giù nel Congo, ancora meglio se il pretesto è andare a vedere se davvero Leopoldo II del Belgio - o meglio il suo infido braccio destro, che ha la faccia giusta e antipatica di Christoph Waltz - si sta segretamente preparando a ridurre in schiavitù tutta la popolazione locale e a impadronirsi delle miniere di diamanti.
E già, perché per evitare sgradite polemiche politicamente corrette sull'uomo bianco che, sebbene figlio delle scimmie, s'innalza sopra la popolazione nera, The Legend of Tarzan (che guarda al cinema d'avventura del passato e alla spettacolarità hollywoodiana presente, e finisce col risultare un po' strabico) spinge al massimo su un messaggio progressista e anti-razzista, sull'uguaglianza tra bianchi e neri e perfino, con una spruzzata d'antispecismo che di questi tempi non fa mai schifo, tra uomini e animali.
Tutti i conflitti si risolvono, allora: Tarzan ha al suo fianco un afroamericano che ha combattuto contro il Sud schiavista (Samuel L. Jackson), fa pace col capotribù che lo voleva morto e col “fratello” gorilla che lo considerava un traditore, e tutti insieme (ma proprio tutti, pure gli gnu, i leoni e i coccodrilli: non manca più nessuno) fanno fronte comune contro la viscida e violenta e sfruttatrice oppressione colonialista e schiavista,
Alla fine, pure i conflitti (interiori) di Tarzan si placheranno: al diavolo Londra, le convenzioni, le scarpe, il freddo e la nebbia: vuoi mettere una bella capanna in Africa, in mezzo agli amici, animali o umani che siano?
Abbracciando la propria natura, invece che inseguendo dei modelli che ci siamo imposti di soli, prima della società, si ritrova il sorriso e perfino la fertilità, racconta Yates. Che, se solo tenesse la macchina da presa ferma quando non esiste motivo al mondo per cui muoverla, non farebbe un soldo uno di danno.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival