Slow West: recensione del western con Michael Fassbender

27 marzo 2015
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Il mito della frontiera secondo un abitante del vecchio continente

Slow West: recensione del western con Michael Fassbender

E intanto il Sundance non sbaglia un film…
Per quanti cinecomic, horror, action movies e franchise di vario genere gli studios possano sfornare, in Nordamerica il nuovo arriva quasi sempre dall’indispensabile festival del cinema indipendente diretto da Robert Redford .
Una delle chicche dell’ultima edizione – che come il sorprendente Whiplash segna l’esordio dietro alla macchina da presa di un musicista – è Slow West, che già nella voce fuori campo iniziale che annuncia: "C’era una volta" rivela la sua intenzione di rivisitare il genere archetipico per eccellenza: il western.

Ora, di cercatori di taglie, eroi solitari, pistoleri, sceriffi e saloon hanno parlato in molti, infrangendo le regole del filone o adattandole al proprio gusto personale, e tenendo a mente (chi più chi meno) la lezione dei grandi maestri. Anche lo scozzese John Maclean ha i suoi modelli, a cominciare dal Sergio Leone di C’era una volta il West, ma invece di copiarlo senza farsi notare o di "addomesticarlo" alla propria estetica, se ne distacca rispettosamente, intrecciando le sue suggestioni alla favola e al romanzo di formazione.

Così eccoci catapultati nel viaggio dell’adolescente di estrazione nobiliare Jay Cavendish, "Giovane Werther" dal coraggio di un leone che attraversa un West desolato e sparuto in cerca della ragazza di cui è innamorato. Alla sua quest – condivisa con un Michael Fassbender che ricorda Clint Eastwood in versione Uomo senza nome ­– Maclean dà un tocco inconfondibilmente europeo, preferendo innanzitutto al widescreen il rapporto d’aspetto 1:66, come a voler raccogliere l’azione in uno spazio più raccolto.

E’ questa intimità, insieme alla lentezza suggerita dal titolo, a fare di Slow West un’epopea tranquilla e a suo modo rassicurante, un’avventura che a volte è perfino lunare e malinconica, se non addirittura evocativa. Eredità di Jim Jarmusch? Magari sì, ma soltanto in parte, perché più che sulla visionarietà il film punta su un’ironia che può anche diventare black o pulp, come nelle scene di sparatorie.

Sono portatori di due diverse filosofie i protagonisti dell’opera prima di uno dei membri del gruppo musicale The Beta Band, o meglio di due modi di guardare al sogno americano, uno dal di dentro e l’altro dal fuori. L’alternanza di prospettive dà al racconto una grande libertà: di spaziare fra poesia e ruvidezza, di parlare un linguaggio ora brutale ora bizzarro, di esaltare il mito della frontiera oppure di smontarlo pezzo dopo pezzo. La morale è che nel Colorado del 1870 (e forse nella nostra contemporaneità) non c’è più posto per i John Wayne, se non nella fantasia di Jay. Al suo posto ci sono donne trasformate in impietose assassine e loschi capobanda come il magnifico Payne che Ben Mendelsohn rende un personaggio meraviglioso.

Accompagnato dalle musiche di Jed Kurzel e ben illuminato dalla fotografia di Robbie Ryan, che predilige colori vivaci alle tonalità bruciate tipiche di molti western, Slow West ha il raro dono della stringatezza. John Maclean sa che 84 minuti possono bastare per creare bei personaggi, far accadere qualcosa e costruire una narrazione epica da cui prendere ogni tanto le distanze.

Un simile "straniamento" non è indice né di furbizia né desiderio di diventare un narratore onniscente. Semmai c’entrano l’apertura mentale, l’amore per il rischio, e l’intelligenza e la cultura di un artista del vecchio continente che per nostra fortuna ha deciso di fare film.

 



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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