Regression, recensione del thriller di Alejandro Amenábar con Ethan Hawke e Emma Watson
Stile che guarda agli anni Novanta, e un racconto che mira alto verso temi sociali e laici.
“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste,” diceva Verbal Kint ne I soliti sospetti: e non è certo un caso che questa frase, più o meno letteralmente, venga riproposta anche in Regression. Solo che, nel film di Alejandro Amenábar, la beffa potrebbe essere quella inversa, quella di un diavolo capace di convincere il mondo della sua esistenza: o meglio, di quella di un altro satanasso da usare come caprone espiatorio.
D'altronde, ci insegnava Christopher Nolan in The Prestige, tutto sta nel trucco: “Il segreto non fa colpo su nessuno. Il trucco che c'è dietro invece è ciò che conta.”
Trucchi, illusioni, allucinazioni; singolari e collettive. Le armi del demonio, Le armi usate in un film che, come nella miglior tradizione dei quegli anni Novanta all'interno dei quali è calato narrativamente, ragiona sulla fiducia (sulla Fede) nell'immagine e nell'apparenza, e quindi nel cinema. Che parla della difficoltà del mantenere un pensiero lucido e autonomo in un mondo che, mediaticamente e socialmente, sembra voler imporre le proprie idee omologate e standardizzate, alle quali ci è richiesto di aderire consciamente e non.
C'è anche da dire, però, che gli anni Novanta son passati da un pezzo, che il cinema ha parlato a più riprese di certe cose, e che – se pure il richiamo al pensiero indipendente e laico nel senso più ampio del termine è attuale e condivisibile – Regression pare arenato su posizioni un po' arrugginite, messe lì a costituire un'impalcatura sulla quale Amenábar intesse la tela che gli interessa di più. Che, con una certa ironia, è proprio quella dell'immagine pura e del cinema come mero godimento estetico, alla quale ci si deve abbandonare con quello che gli anglosassoni chiamano un leap of faith.
Attraverso la patita odissea satanica e satanista del detective interpretato da Ethan Hawke, affiancato dalla vittima sacrificale Emma Watson (inadeguata alla parte), il regista spagnolo illustra con eleganza gotica e sinuosa i tre atti di un numero di magia illustrati proprio in The Prestige, “la promessa, la svolta e il prestigio”, e li porta quasi a far collimare con i tre atti canonici del racconto. Privilegiando sempre l'immagine (l'illusione) sulla parola (illusoria anch'essa).
Alla fine del numero, però, lo stupore è ben poco: la bolla scoppia rivelando un cuore vuoto, nel quale riecheggiano soltanto le eleganze visive e qualche efficace momento di suspense. E anche per chi ha fede nel cinema, questo può non bastare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival