Pinocchio: la recensione del film di Matteo Garrone che riporta al cinema la fiaba di Collodi

18 dicembre 2019
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Fedele al testo originale, visivamente curatissimo, con alcune notevoli intuizioni: ma a mancare sono cuore e emozioni.

Pinocchio: la recensione del film di Matteo Garrone che riporta al cinema la fiaba di Collodi

Che quel tronco di legno dal quale sta ricavando un burattino abbia qualcosa di speciale, il Geppetto di Benigni lo scopre abbastanza in fretta. E, tutto considerato, non ne rimane nemmeno sconvolto più di tanto. Allo stesso modo, quando Pinocchio corre incontro al suo babbo, diventato un bambino vero, Matteo Garrone sembra quasi voler chiudere la questione, e il suo film, senza stare a dilungarsi troppo.
In mezzo c'è spazio per le avventure, per lo stupore, perfino per la meraviglia. Ma, come suggerisce la gestione di quelle due scene, e per quanto ci sia una chiara tenerezza nel racconto dell'amore di un padre per un figlio, non per l'emozione.
Realizzare questo film era un sogno covato a lungo da Matteo Garrone, e quello di Collodi, per lui, era una specie di testo sacro. Come spesso accade in questi casi, la deferenza e l'essere finalmente arrivati a fare ciò che si voleva, sembrano aver imbrigliato l'energia artistica del regista, il suo fuoco e il suo cuore. E questo Pinocchio - fedele, fedelissimo, anche troppo, rispetto al testo collodiano - è un film dove la testa e gli occhi vengono sempre, inevitabilmente, prima del cuore e della pancia.

Garrone costella il film con immagini di grande effetto, trova qualche intuizione narrativa notevole, dipinge inquadrature di grande potenza visiva: dal teatro dei burattini di Mangiafuoco fino a all'apparizione del pescecane, passando per le scene con la Fata e Lumaca o la carovana dei bambini diretti al paese dei balocchi. Azzecca interpreti e caratterizzazione dei personaggi: su tutti, la Volpe di Ceccherini, ben accompagnato dal Gatto di Papalaeo; ma anche il giudice-scimmia affidato a Teco Celio.
E però, per quanto elegante, per quanto intelligente, per quanto raffinatamente dark - ma mai troppo oscuro - e perfino aperto alla leggerezza della comicità, questo Pinocchio non ha mai il guizzo che riveli l'intenzione di Garrone di mettere del suo nella storia e nelle sue tematiche, di andare oltre l'illustrazione. Di lasciarsi andare davvero, liberando il pensiero e l'estro. Non è mai, davvero, magico.
Al contrario. Se c'è una cosa che Garrone riprende da Comencini, citato in maniera abbastanza esplicita nelle prime scene del film, è la voglia di ritrarre il mondo di Pinocchio in chiave realistica.
Può sembrare un paradosso, ma attraverso la scelta dei luoghi, e di come vengono raccontati, e perfino in come certi episodi sono raccontati, è chiaro che Garrone abbia voluto raccontare in questo suo Pinocchio un mondo rurale, pre-industriale, che pare interessarlo come e più degli snodi della trama che vi cala all'interno.

Il massimo del realismo per esaltare la favola del racconto? Garrone l'aveva già fatto. In Reality, certo, ma in fondo in quasi tutti i suoi film. Quasi sempre con risultati migliori, più personali, più incisivi. Più emozionanti, anche pensando al Racconto dei racconti. Meno elegantemente pittorici, forse; ma anche senza certi incessanti tappeti musicali un po' dolciastri che sembrano messi lì apposta per ingraziarsi nel modo più facile, e popolare, i suoi spettatori.
Fieramente artigianale, nel senso più pieno e nobile del termine, questo Pinocchio è un film scivoloso per il troppo ragionare, per la paura di sbagliare, e che la sua identità la trova sempre e solo nella forza delle immagini e nel costante - e un po' ansioso - rispecchiarsi col testo di Collodi.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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