Papillon: recensione del remake del classico carcerario con Charlie Hunnam nel ruolo che fu di Steve McQueen
Rivistazione della storia di un brillante mago del furto parigino condannato al carcere nelle colonie.
1968. Un anno cruciale di cui molto si parla di questi tempi, a 50 anni di distanza. Fra gli effetti dirompenti di quell’anno in Francia non risultano particolari riflessioni sulla storia del regime carcerario. A quello ci pensò, un anno dopo, l’uscita di un libro di memorie che ebbe un successo enorme, scatenando grandi polemiche per la veridicità dei fatti raccontati, ma anche per le durissime condizioni in cui galeotti e condannati per reati gravi trascorsero la loro pena nei campi di lavoro forzato della Guyana francese. Papillon è il titolo di quel libro scritto da Henri Charrière, diventato già un film nel 1973 per la regia di Franklin J. Schaffner, con le interpretazioni memorabili di Steve McQueen e Dustin Hoffman. Arriva ora nelle sale un remake con Charlie Hunnam a indossare i (pochi) panni dell’ergastolano, e a confrontarsi con un’icona come lo spericolato attore con la passione per le corse.
Ingiustamente incastrato per un delitto non commesso, Papillon, soprannome legato a una farfalla tatuata sul torace, ma anche nel corso del film simbolo dell’ostinata ricerca della libertà, fu sbattuto insieme a molti altri in una delle realtà carceraria più brutali, la Guyana francese, il cui cuore disumano era l’isolamento nella celeberrima Isola del Diavolo. Una realtà che negli anni ’30, proprio mentre Papillon si spaccava la schiena picconando sulle pietre, iniziava a essere messa in discussione, tanto che nel 1937 furono abolite le condanne ai lavori forzati e nel 1946 fu chiusa l’Isola del Diavolo. Una realtà sperimentata da altri celebri detenuti come, qualche decennio prima, Alfred Dreyfus, ebreo condannato per spionaggio altrettanto ingiustamente dai vertici antisemiti dell’esercito.
La protagonista del cortile centrale del carcere era lei, la ghigliottina, macchina per la decapitazione diventata di gran moda durante la Rivoluzione francese. Appena si tentava la fuga, resa quasi impossibile dal mare popolato di squali e dalla foresta tropicale, in caso di cattura si finiva lì, con la testa mozzata di netto. L’originale Papillon rientrava in un genere allora molto popolare, quello del cinema carcerario, concentrato soprattutto sui tentativi di evasione. Quell’istinto di libertà che il malcapitato protagonista manterrà sempre, più forte di ogni tentativo fallito di evasione, di ogni condanna ad anni di isolamento alienanti. L’unico alleato, all’interno di un contesto ostile anche anche fra i suoi compagni di sventura, è il falsario Louis Dega, nell’originale Dustin Hoffman e nel remake il Remi Malek di Mr. Robot. La ragione iniziale è legata al grosso conto in banca, o meglio ben nascosto, del suo compagno di sventura, che lo spinge a proteggerlo in cambio della promessa di un futuro sontuoso conguaglio utile per progettare una fuga e un futuro, ma sempre più evidente è come il loro rapporto serva a entrambi a non cedere alla condizione avversa e senza speranze che li circonda.
Non memorabile neanche nella sua versione del 1973, impreziosito però dalla carismatica interpretazione del suo protagonista, non aggiunge nulla di nuovo a una storia vista più e più volte, soffrendo di un ritmo monocorde che non contribuisce a stimolare l'attenzione dello spettatore. Esordio americano per il danese Michael Noer, che si è fatto apprezzare anche al di là dei suoi confini per il suo esordio crime R, Papillon è troppo simile all’originale per dimostrare con i fatti la necessità di una rivisitazione della vicenda e troppo soggetto a confronti impietosi fra le carismatiche interpretazioni dell’originale.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito