Oliver & Company, la recensione del cartoon Disney ispirato a Dickens
Non c'era solo Oliver Twist, ma anche il desiderio dei nuovi artisti Disney di confrontarsi coi padri.
Nella New York degli anni Ottanta, il piccolo gattino Oliver non riesce ad essere adottato, finendo compagno di strada del navigato cane Dodger. Quest'ultimo fa parte della banda di cani del piccolo delinquente Fagin, indebitato fino al collo col mafioso Sykes. Proprio quando Oliver si sta adattando a una vita difficile, l'incontro fortuito con la ricca bambina Jenny sembra aprirgli un futuro migliore.
Oliver & Company (1988, in Italia nel 1989) rappresenta la tappa finale del processo del rinnovamento dei Walt Disney Animation Studios alla fine del decennio. E' il terzo atto di un apprendistato dell'allora nuove leve Disney: il secondo atto è nel 1986 Basil l'investigatopo di Musker-Clements-Mattinson-Michener, più disinvolto e spiritoso di Oliver & Company ma anche meno sicuro tecnicamente, in animazioni e regia aggiornata a un cinema più dinamico. Dopo il fiasco di Taron e la pentola magica, il CEO dello studio Jeffrey Katzenberg aveva imposto un rigore che gli artisti non conoscevano: basti pensare che questo è il primo lungometraggio del canone animato Disney che parte da una vera sceneggiatura, affiancata al tradizionale storyboard. Vi partecipa persino la meteora Timothy J. Disney, pronipote di Walt e figlio di Roy Disney Jr., quasi come imprimatur dello spirito Disney da rilanciare presso un pubblico che l'ha dimenticato.
Ed è lo spirito Disney a tener su un adattamento assai libero dell'"Oliver Twist" di Charles Dickens, declinato in chiave contemporanea e animalista: i modelli si possono ancora cercare in casa, tra Lilli & il Vagabondo, Gli Aristogatti e soprattutto La carica dei 101, il più vicino non solo per la direzione artistica dei fondali semplice e non troppo stratificata, ma in primis per il tono generale da avventura scanzonata. Nel film di George Scribner, veterano esterno ex-collaboratore di Ralph Bakshi, Gerald Potterton e Hanna & Barbera, l'ambiguità etica di Dickens è accuratamente evitata: Fagin diventa un reietto di buon cuore, il male viene trasferito tutto sul monodimensionale Sykes (animato benissimo da Glen Keane, va detto) e il signor Brownlow e famiglia del romanzo sono condensati nella leziosità di Jenny, tramite elementare per il pubblico dei più piccoli.
Oliver & Company è un film divertente ma ancora timido, saggiamente: per affrontare l'imminente Sirenetta e l'avvio effettivo del Rinascimento Disney, era prima obbligatorio confrontarsi con l'eredità degli animali parlanti, portata alla perfezione dai mentori ormai pensionati di questi nuovi artisti. In quest'ottica di "apprendistato", ci sono due importanti passi avanti del team. C'è per esempio il primo coinvoglimento di Howard Ashman come paroliere della canzone di apertura Once Upon a Time in New York City. Avrebbe poi fatto coppia con il compositore Alan Menken per emozioni mai dimenticate. C'è inoltre la creazione di un dipartimento apposito per la computer grafica agli albori: la notate nei modelli delle auto nel traffico, nello scooter di Fagin, nell'auto di Sykes, in un movimento di macchina rotatorio mentre Jenny è al piano, e nell'ancora molto approssimativa corsa nei sotterranei della metropolitana.
In definitiva, l'importanza di Oliver & Company come ultimo tassello del rinnovamento dello studio sopravanza le sue qualità, ma non c'è da stupirsi se tanti spettatori lo amano. Nella galleria dei comprimari ci sono vivacità, ironia e divertenti caratterizzazioni (in primis la barboncina viziata Georgette, ma noi abbiamo un debole per Tito). Le animazioni ormai hanno raggiunto una buona disinvoltura e il numero musicale di presentazione di Dodger “Why Should I Worry / Che me ne importa”, cantato dal suo doppiatore originale Billy Joel, è una bella iniezione di adrenalina che non invecchia.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"