Macchine mortali, la recensione del film tratto dai romanzi di Philip Reeve
Dirige Christian Rivers, scrive e produce Peter Jackson.
In un futuro in cui le città sono semoventi su cingolati e vagano per la Terra, dopo una catastrofe detta "Guerra dei 60 minuti", Thaddeus Valentine (Hugo Weaving) è l'ingegnere responsabile di Londra, per la quale sogna un futuro di conquista, senza guardare in faccia a nessuno. I suoi piani si scontreranno con una ragazza che arriva dal suo passato, Hester Shaw (Hera Hilmar), e il giovane storico Tom (Robert Sheehan), forse meno imbranato di quel che sembra .
La saga delle "Macchine Mortali" (2001) dello scrittore inglese Philip Reeve conta quattro romanzi nella cronologia principale, più tre prequel. Un corpus piuttosto vasto la cui ricchezza in questo massiccio lungometraggio Macchine Mortali si intuisce, ma che forse sullo schermo ha il fiato non abbastanza lungo. L'adattamento cinematografico del ciclo è stato molto voluto da Peter Jackson, qui coproduttore e cosceneggiatore con le fedelissime Fran Walsh e Philippa Boyens. La regia è stata affidata a un suo collaboratore di vecchia data, quel Christian Rivers che da decenni si occupa degli storyboard per l'autore neozelandese.
Non siamo in grado di operare un paragone tra il film e i romanzi, non avendoli mai letti, ma la versione cinematografica di queste vicende frulla suggestioni dal cinema epico contemporaneo e meno contemporaneo: il protagonista Sheehan ricorda l'Eddie Redmayne di Animali Fantastici, l'estetica delle scene belliche richiama il Signore degli Anelli, e non mancano strizzate d'occhio (forse qualcosa di più) a Terminator e Star Wars. Sia chiaro: tra un'eco e l'altra, il carattere originale del mondo di Reeve si avverte, però il copione vi si sofferma forse non abbastanza. L'idea di città semoventi è suggestiva, ma lo svolgimento del racconto non approfondisce le conseguenze di questo cambiamento nella vita delle persone. Si preferisce insistere sul vederle come gigantesche navi da battaglia, in movimento su un oceano di sterpaglie incoltivabili. La trovata centrale, in definitiva, diventa solo una premessa ma sembra non essere mai la sostanza del racconto.
Realizzato senza badare a spese e con indubbia spettacolarità di alcune indovinate sequenze, Macchine Mortali intrattiene con un'altra perizia tecnica, ma in due ore cerca di comprimere più linee narrative e risvolti: viene da pensare che una serie tv avrebbe dato più respiro all'adattamento, ma avrebbe anche cozzato con un budget incompatibile con questa spettacolarità. Ancora una volta – come spesso accade nei blockbuster contemporanei – il risultato sarà più apprezzabile emotivamente da chi già conosca il materiale. Per gli altri, si corre il rischio di trovarsi di fronte a un sovraccarico di personaggi, luoghi, citazioni e spiegazioni con cui si fa fatica a empatizzare: per fortuna che il rapporto tra Tom e Hester funziona, più che altro grazie alle performance di Sheehan e Hilmar.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"