Legend: recensione del delirante fantasy di Ridley Scott con Tom Cruise
Nella fase aurorale della carriera del regista e della superstar, c'è questo film insolito e bizzarro, che vale la pena recuperare per l'estetica quasi glam e una narrazione tanto ellittica da sembrare punk e avanguardista.
Era il 1984. Ridley Scott veniva dai successi di Alien e Blade Runner. Avrebbe potuto fare quello che gli pareva: e in effetti così fece, girando un film fantasy - che, in effetti, in quel periodo degli anni Ottanta era un genere molto popolare - basato su un'idea avuta mentre lavorava a I Duellanti, e sviluppata poi nel corso di tre anni assieme allo scrittore e sceneggiatore William Hjortsberg.
Come protagonista, Scott volle un giovane attore che pareva in rapida ascesa, di nome Tom Cruise. Un Tom Cruise che sfoggiava ancora un vago accenno di monociglio e due incisivi superiori non proprio regolarissimi - che, insomma, non era ancora stato tirato a lucido per diventare il Maverick di Top Gun - ma che già era capace di far fiammeggiare sorrisi e sguardi vagamente esaltati.
È in questo modo che nacque Legend, un film che a rivederlo oggi colpisce per il modo del tutto disinibito e vagamente supponente di essere girato e di raccontare la sua storia, così testardamente libero da regole e convenzioni, così sconclusionato (anche per via di una post-produzione non facilissima, che portò alla realizzazione di tre versioni diverse del montaggio finale, e di due colonne sonore alternative) da risultare quasi avanguardista.
La storia di Legend mette assieme le influenze più disparate: J.R.R. Tolkien, J.M. Barrie, i fratelli Grimm, Jeanne-Marie Leprince de Beaumont; perfino miti dell'Antica Grecia come quello di Perseo e della Gorgone Medusa, o quello di Orfeo e Euridice.
Nella sua estetica, contrassegnata dalla ossessione costante di Scott per la luce, capace di diventare anche un elemento chiave del racconto, si alternano eden naturali, unicorni (come quelli di Blade Runner, certo), piogge di petali purpurei o di grosse gocce d'acqua, bolle di sapone e glitter diffuso, goblin, fate, folletti e una creatura mostruosa che vive nelle e per le tenebre e pare un Hellboy sotto steroidi dalle corna non piallate ma XXXL e lo zoccolo glitterato in stile glam.
Carica di evidenti simbolismi, e di un certo sottotesto di tensioni erotico-sessuali da non sottovalutare, la trama di Legend è essenziale pur nel florilegio incontrollato di ellissi, e nella sua costante subordinazione al dato estetico. È quella di Lili (l'attrice Mia Sara, all'epoca appena 15enne), una principessa curiosa e un po' viziata che combina un bel guaio, permettendo che a uno degli ultimi due unicorni del mondo venga tagliato il corno, e facendo conseguentemente calare il buio e il gelo sul mondo. Per fortuna che c'è Jack (che poi sarebbe Tom Cruise), curioso mix tra Mowgli e Peter Pan che è innamorato di lei, e che, quando lei viene rapita dai folletti malvagi al servizio del terribile Tenebra, e condotta nel suo regno nel sottosuolo, farà squadra con alcuni elfi e una fatina in stile Trilli invaghita di lui per andare a salvarla.
Anche se nel frattempo Tenebra cercherà di sedurre Lili e di farle abbracciare il suo lato oscuro, rinnovandole il look e finendo per farla sembrare - lei che inizialmente era una sorta di virginale e candida Cenerentola - una che sta andando a un concerto dei Cure nella Londra dei primi anni Ottanta.
Completamente girato in studio, con un make up studiatissimo e spettacolare realizzato dallo specialista Rob Bottin, Legend trova proprio nel gigantesco e sottilmente perverso Tenebra interpretato da Tim Curry (che riprende per l'appunto un filo dell'ambiguità sessuale del suo personaggio più celebre, il Fran'n'Further del Rocky Horror Picture Show) il suo punto di forza, perché è lì che l'ossessione manierista di Scott si sposa nel modo più riuscito con le necessità del racconto.
Ma più che stare a sottolinearne i pregi e i difetti, vedere oggi un film come Legend è utile e divertente: un po' per riesumare quanto avveniva nelle fasi meno note delle carriere di Scott e Cruise, un po' per perdersi nella sua sovrabbondanza barocca, nell'accumulo incoerente di registri estetici, in un racconto pieno di salti sorprendenti e azzardati, che se ne fregano bellamente di logica e coerenza per inseguire il sogno del suo autore a rischio di sfiorare un incompiuto onirismo. O, magari, lo sberleffo puramente punk.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival