Lasciati andare: la recensione della commedia con Toni Servillo
Un film che non si prende troppo sul serio e che invita ad assecondare il ritmo della vita
Appesantire con un’evidente pancetta Toni Servillo, lasciandogli indosso il vestito sorrentiniano dell’ironia caustica e del sense of humour spietato ma sostituendo all’iconica giacchetta gialla di Gep Gambardella inguardabili tute acetate, è un’ottima idea: perché diverte, spiazza e incuriosisce, e perché un attore che ama definirsi strumento delle storie e dei personaggi non può che diventare sorprendente quando si avventura in un "paese" ancora inesplorato per quanto ardentemente desiderato (la commedia). E’ anche un atto di coraggio, che solo un film non "piccolino" (come qualcuno lo ha definito) ma "grande" nel suo remare inconsapevolmente contro la commedia più modaiola poteva permettersi di tentare, un film che nasce da una penna che conosciamo (quella di Francesco Bruni, non da solo) e che ha il pregio di non prendersi troppo sul serio e di assecondare - con il suo ritmo a tratti discontinuo - l’anarchico, casuale e a volte imprevisto fluire della vita.
Questo fluire lo segue innanzitutto Servillo stesso - nel suo giocare con le stramberie di Elia Venezia e in una recitazione in equilibrio fra distacco e partecipazione emotive - e lo seguono pure i suoi compagni di set, liberi di regalare qualcosa di sé al film ma fedeli alla sceneggiatura e a un lungo lavoro di preparazione: Carla Signoris e Verónica Echegui, per esempio, che grazie a Dio non sono le solite facce da cinema da ridere e che fanno da contraltare a un protagonista che riassume in sé diverse maschere "molieresche" (l’avaro e il misantropo, per cominciare), salvo poi essere al 100% contemporaneo in uno snobismo intellettuale altoborghese, giudicante e tranchant.
Ogni cosa è armonica, insomma, nel terzo lungometraggio del regista di Cosimo e Nicole (che non cede neppure a una rassicurante voce-off), e così ci si abitua subito e volentieri ai duetti fra lo strizzacervelli e la personal trainer, coppia di "guaritori" inizialmente male assortita che trova poi in qualche modo un canale di comunicazione. Starle dietro è un piacere, tanto più in un percorso a ostacoli in cui non si procede mai a scatti, o per scontati "siparietti". Ecco: la caratteristica più evidente di Lasciati andare è che non si tratta di una somma di situazioni buffe, ma di un cammino - ora a due ore a tre - da un punto "a" a un punto "b", un viaggio magari non così inatteso, ma comunque gradevole perché a compierlo sono individui in trasformazione quasi sempre inadeguati alle circostanze e perciò spesso in affanno, in corsa.
Insieme a loro, soprattutto alla fine, corre il film, che supera brillantemente un'impasse intermedia - nella quale insieme ai chili del protagonista va via un po' di magia - per diventare rocambolesco e per lanciare a Servillo un'ennesima sfida: la comicità slapstick. E allora arrivano le fughe, i capitomboli e perfino l'azione e la contaminazione con il mondo criminale, rappresentato da un Luca Marinelli minaccioso e balbuziente.
Ai traumi infantili e alla violenta follia del suo personaggio preferiamo però le debolezze (gianduiotti compresi) di Mr. Venezia e della sua ex signora. Francesco Amato guarda entrambi con tenerezza, quella tenerezza che dopo i cinquanta fa ritrovare chi un tempo si è amato e che ci rende più umani, empatici e "avvicinabili".
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali