Judas and the Black Messiah: la recensione del film candidato a sei premi Oscar

07 aprile 2021
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Daniel Kaluuya e LaKeith Stanfield sono i bravissimi protagonisti di un film che racconta una drammatica storia vera, e che ha il grande pregio di rifiutare semplificazioni e polarizzazioni tutto a vantaggio di sfumature e complessità spesso volutamente irrisolte. Recensione di Federico Gironi.

Judas and the Black Messiah: la recensione del film candidato a sei premi Oscar

Il Messia Nero, come lo definisce J. Edgar Hoover, qui interpretato da Martin Sheen, è Fred Hampton. Leader delle Black Panthers di Chicago, era stato identificato dal capo dell'FBI come l'uomo che avrebbe potuto unificare tutti i movimenti di protesta che infiammavano gli Stati Uniti mettendo a rischio "lo stile di vita americano", prima ancora della "sicurezza nazionale". Quindi, dall'FBI venne ammazzato nel dicembre del 1969, a soli 21 anni.
Il Giuda, invece, è un altro ragazzino, William O'Neal. Un ladruncolo d'auto che, dopo il suo arresto, dall'FBI venne usato come informatore. Infiltrato nelle Pantere Nere, divenne uno stretto collaboratore di Hampton, vivendo la più classica delle doppie vite e delle schizofrenie interiori di chi è nei suoi panni, ma finendo lo stesso col giocare un ruolo cruciale nell'assassinio del Messia Nero. Si uccise nel 1990, dopo essersi rivisto nell'unica intervista tv mai rilasciata su quei fatti.
Basta conoscere un minimo la storia della letteratura o quella del cinema per sapere che Giuda è un personaggio molto più interessante di quello del Messia da un punto di vista narrativo, e sicuramente di questo erano ben consapevoli sia Shaka King, che Judas and the Black Messiah l'ha scritto e diretto, che il suo co-sceneggiatore Will Berson, per non parlare dei fratelli Lucas, autori del soggetto.
E quindi sì, c'è ovviamente molto Hampton in questo film (c'è anche il suo carisma, ben restituito da Daniel Kaluuya) ma c'è soprattutto O'Neal, in tutta la sua scissione, in tutte le sue contraddizioni, in tutta la sua mancanza di risoluzione. Che diventano così, anche grazie a LaKeith Stanfield che lo interpreta benissimo, centrali nel racconto degli eventi ma anche nel discorso politico, e nel modo in cui gli autori hanno voluto raccontare lo stesso Hampton, evitando così di farne l'ennesimo quanto inutile santino.

Judas and the Black Messiah è un film tanto più classico e lineare nella forma, quanto più gioca con la complessità in quello che racconta. Lo sguardo è lucido, anche quando i personaggi e i temi sono sfuggenti e refrattari a semplificazioni e polarizzazioni.
Intendiamoci, non si sono certo ambiguità nel racconto delle responsabilità dell'FBI sull'assassinio di Hampton, quello no, anche perché sono state accertate anche processualmente in una causa civile durata dodici lunghi anni; c'è, però, la voglia di lavorare le sfumature. Di raccontare un O'Neal senza mai a metterlo volontariamente a fuoco nella sua complessità psicologica e perfino nella sua ambiguità politica; e anche di mostrare teoria e pratica delle Pantere Nere lasciando aperta la tensione tra l'azione sul territorio a favore della comunità e quella riguardante le istanze rivoluzionarie e sull'uso della violenza.
Allo stesso modo, pur finendo con l'essere intessuto di rimandi espliciti e non, volontari e non, a tanto cinema che ha affrontato recentemente e non questioni razziali - ci sono echi di quanto raccontato in Il processo ai Chicago 7, One Night in Miami, BlacKkKlansman, The Black Power Mixtape 1967-1975, Detroit e perfino Mississippi Burning - Judas and the Black Messiah non è un film che parli solo di questioni razziali o di identità nera. Perché, come diceva Hampton, che aveva unito le Pantere Nere a movimenti proletari bianchi e di altre etnie, l'unica cultura che conta, l'unica identità che conta, è quella rivoluzionaria.
E Judas and the Black Messiah è un film che parla di lotta di classe, prima che di razzismo: della guerra tra un'establishment bianco e una classe oppressa nera, ma anche bianca e di altri colori.

La mancata sintesi di tanta complessità storia e politica (e, per alcuni versi, anche cinematografica, nel modo in cui il film lavora sui canoni del film biografico e del cinema poliziesco) è il cuore del film, incarnata dallo sguardo tormentato di un O'Neal sempre più in crisi con sé stesso, con il suo individualismo costantemente contrapposto al parlare della e alla collettività di Hampton, con la sua coscienza. Uno sguardo che genera le scintille necessarie all'accensione del racconto, e che porta a interrogarsi su una serie di contraddizioni assai più ampie, che coinvolgono il sistema politico, il contrasto tra riformismo e rivoluzione, e sopratutto quello tra la parola e l'azione.
All'inizio del film, Hampton cita Che Guevara, dicendo che le parole sono bellissime, ma l'azione è superba. E però, Hampton è qui raccontato prima di tutto come un uomo di parola, come politico, prima che come rivoluzionario: l'azione è compiuta sempre da chi è a lui vicino.
Alla fine del film, invece, quando Shaka King usa le immagini d'archivio dell'intervista tv di O'Neal, l'uomo, per giustificare le sue azioni, rivendica l'aver agito, l'aver fatto parte della lotta, al contrario di quei tanti rivoluzionari da salotto che hanno solo parlato senza mai sporcarsi le mani.
Parola e azione: che poi, alla fine, sono anche le cose di cui è fatto il cinema, e di cui è intessuto anche questo Judas and the Black Messiah.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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