Il talento di Mr. C, la recensione del film con Nicolas Cage che fa Nicolas Cage

07 novembre 2023
3.5 di 5

Non solo un divertente e confusionario giochino metacinematografico, ma una riflessione sul cinema come racconto, creazione di mito, modellazione dell'immaginario e della realtà. In streaming su Netflix. La recensione di Il talento di Mr. C di Federico Gironi.

Il talento di Mr. C, la recensione del film con Nicolas Cage che fa Nicolas Cage

A un certo punto di Il talento di Mr. C (che è un titolo italiano assai più semplicistico e riduttivo dell’originale, che suona The Unbearable Weight of Massive Talent), Nicolas Cage nei panni di Nicolas Cage chiama il suo agente annunciando il suo ritiro dalle scene.
In particolare, gli dice di chiamare i giornali (nell’originale i trades, le riviste di settore dell’industria hollywoodiana) e comunicare loro che per lui è stato “un vero onore essere una piccola parte di una delle più antiche tradizioni di narrazione e creazione di miti dell’uomo” (storytelling and mythmaking, nell’originale).
Ecco, questo divertente giochino metacinematografico che si chiama Il talento di Mr. C, e che appunto vede uno degli attori più eccessivi, imprevedibili, folli e amati in circolazione vestire con grande autoironia i panni di sé stesso, in un gioco di rispecchiamenti continui tra il cinema e la realtà che sta dentro e fuori dal film, trova secondo me in questa frase, nell’idea del cinema come narrazione e creazione di miti, una ragione d’essere più complessa, e se vogliamo profonda, di quella superficiale.

Il Nicolas Cage di questo film è un Cage ossessionato da lavoro e carriera tanto da aver sempre trascurato la famiglia, un Cage che teme di essere al capolinea, tanto da pensare di abbandonare il cinema dopo aver acconsentito a essere pagato per partecipare alla festa di compleanno, in Spagna, di un misterioso riccone.
È un Cage che, come sappiamo essere nella realtà, spende cifre folli per oggetti discutibili, che parla di nouveau shamanism, che nei momenti più duri parla con una specie di alter ego invisibile che è - ovviamente - il sé stesso versione Sailor Ripley, il protagonista di Cuore selvaggio, ovvero quello che è un po’ il padre di tutti i ruoli selvaggi e sopra le righe di Nicolas Cage.
È un Cage un po’ in crisi e magari pure un po’ dimesso, per quanto sempre stralunato e imprevedibile, che però ritrova sé stesso nel sé stesso di film come Face/Off e Con Air.
Quello di Con Air è peraltro il primo Cage che vediamo in questo film, guardato in tv da una ragazza che verrà di lì a poco rapita, e che quando poi verrà - ovviamente - salvata da Nicolas Cage tutto quello che riuscità a dire è “Nicolas Cage? Sei fottutamente fico!”.

Ora, conta poco la trama, il fatto che a casa del riccone Cage troverà un amico, ma anche l’uomo sospettato del rapimento della ragazza vista all’inizio del film, e che da attore sulla via del fallimento si tramuterà in operativo al servizio della CIA, e che in tutto questo, ovviamente, troverà anche il modo di riprendere il controllo della sua carriera e della sua vita familiare.
Contano anche poco, tutto sommato, i gustosi duetti di cui si rende protagonista assieme Pedro Pascal, il riccone che l’ha voluto a casa sua perché lo adora e lo idolatra e conosce a memoria ogni suoi film e ogni sua battuta.
Quello che conta è che, con questo film, del quale non ha alcun credito di sceneggiatura (scritta dal regista Tom Gormican assieme a Kevin Etten), Nicolas Cage ha, ben prima di battere il primo ciak, con la sua idea di questo film, certificato di essere non una parte piccola, ma direi quasi fondamentale nell’antica tradizione umana di narrazione e di creazione di miti.

Nicolas Cage ha reso indistinguibile la sua vita dai suoi film, ha fatto di sé stesso qualcosa di più di un attore, qualcosa di più di una star, ma un vero e proprio idolo, una figura mitologica capace di abitare senza transizione apparente il mondo reale e quello del cinema, capace di essere al tempo stesso sé stesso e i suoi personaggi, capace di abolire ogni possibile barriera tra vita e recitazione.
Quando è a terra in una stanza, in preda a un qualche veleno, e sta per essere scoperto dai cattivi, a Nicolas Cage basta che qualcuno gridi “Azione!” per riprendersi e iniettarsi l’antidoto. Cage sa guidare bene perché l'ha fatto in Fuori in 60 secondi. Corre veloce perché gliel'hanno visto fare in National Treasure.
Dove accade, questo? Nel film? Nella realtà? Da nessuna parte o in entrambe le dimensioni? O nella dimensione trascendente dell'immaginario a cavallo tra i due mondi?

Ma attenzione.
Perché Il talento di Mr. C, che parte da spunti kaufmaniani (nel senso di Charlie) per poi scivolare verso l’action più spudorato di Bay e di Woo (ma senza arrivare alle rispettive e relative vette), e che poi ha nuovamente un colpo di coda metacinematografico, è si un giochino - dannatamente divertente - ma è tutt’altro che una celebrazione dell’ego del suo protagonista, del suo mito, del suo idolo.
Perché nel Talento di Mr. C Cage sa - ha fatto sapere inconsciamente ai suoi sceneggiatori, direi, con il suo cinema e la sua vita - che per risorgere, per trascendere definitivamente, c’è bisogno anche di una seppur blanda autocritica, sempre ammantata di ironia.
Ed è per questo che, alla fine, Il talento di Mr. C e di Nicolas Cage risultano vincenti. Perché dentro questo guazzabuglio magari un po' superficiale di cose, rimandi, piani e rispecchiamenti ci sono scintille introspezione e di verità.
Come quelle che riguardano Paddingon 2, e la sua bellezza.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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