Il Principe di Roma: recensione della commedia in costume con Marco Giallini
Il Principe di Roma segna una nuova collaborazione fra il regista Edoardo Falcone e Marco Giallini e prende spunto un po’ dai film di Luigi Magni e un po’ da Canto di Natale di Charles Dickens. La ricostruzione d’ambiente è notevole e anche gli attori, mai volgari o caricaturali.
Nella prima scena de Il Principe di Roma, Marco Giallini posa per un ritratto e, rigorosamente in romanesco, non fa mistero della sua villania prendendo a male parole il pittore. Siccome l'attore indossa abiti costosi e non si trova in una stamberga, il paragone fra il suo signor Bartolomeo e il protagonista de Il Marchese del Grillo nasce spontaneo, anche perché il nostro Rocco Schiavone ha fatto tesoro della lezione dei grandi mattatori italici nel suo approccio alla commedia. E invece, la storia che Edoardo Falcone ha voluto raccontare nel suo nuovo film ha poco a che vedere con il capolavoro di Mario Monicelli del 1981 con Alberto Sordi. La ragione non va individuata solamente nella dichiarata ispirazione a "Canto di Natale" di Charles Dickens, con i famosi tre fantasmi che appaiono allo sgradevole ed egocentrico protagonista. Piuttosto, l'unicità della favola non natalizia ambientata nella capitale nel 1829 sta nell'assoluta mancanza di volgarità, goliardia ed esagerazione picaresca, oltre che in una soffusa malinconia che avvolge alcune scene chiave: momenti delle riprese in cui Giallini si è commosso e che parlano di affetti perduti per sempre o ritrovati.
Il futuro Principe Accoramboni (sempre Bartolomeo, che si chiamerà così dopo che avrà sposato una nobile fanciulla) non somiglia però così tanto a Ebenezer Scrooge, visto che possiede senso dell'umorismo, saggezza popolare e sarcastico disincanto. Meo qualcosa di buono ce l'ha fin dal principio - e probabilmente giocano a suo favore il grande cuore e gli occhi buoni di Marco Giallini - e lo dimostra, ad esempio, mentre osserva, insieme al primo spettro, la sua triste infanzia in un orfanotrofio.
Ma c'è dell’altro, perché il regista, come sovente accade, si serve di una vicenda che si svolge nel passato per parlare dei mali del presente, anche se a lui piace dire che ne Il Principe di Roma ha trattato soprattutto di valori universali. Osservando la distanza sempre maggiore fra i nobili, privilegiati e annoiati, e il popolo che muore di fame, si pensa per esempio con rammarico alla nostra povera Italia, con la sua classe politica coperta d'oro da una parte, e dall'altra i nuovi poveri, sempre più numerosi. E poi ci sono le donne, che hanno fatto passi da gigante rispetto alla metà del XIX° secolo e non sono più così alla mercé degli appetiti sessuali di chi occupa una posizione di potere, ma che spesso restano inascoltate e, se non finiscono come Beatrice Cenci, che comunque si rese colpevole di parricidio, riescono a farsi giustizia fra mille pregiudizi e difficoltà.
Passando ai valori universali tanto cari a Falcone, anch'essi sono portatori di un po’ di tristezza e non permettono al film di crogiolarsi nella commedia o di affidarsi all’improvvisazione e al birignao di chi spicca per talento anche quando mette il pilota automatico. Nel Principe di Roma si parla del tempo che inesorabilmente passa, delle conseguenze dolorose di scelte magari scellerate ma da cui non si può tornare indietro, degli affetti e della memoria, che forse è il patrimonio più prezioso che abbiamo, sia come singoli individui che come razza umana.
Laddove invece si ride di gusto è nelle sequenze con i fantasmi legati al presente e all'avvenire. Filippo Timi che impersona Giordano Bruno è irresistibile, e che dire di Giuseppe Battiston senza barba che interpreta Papa Borgia? Nel film si coglie subito la grande passione dei due attori per i loro personaggi, così come è evidente l'amore che Edoardo Falcone ha per Roma: per la sua storia, per le sue strade e i suoi monumenti, per il dialetto che vi si parla e per quei film che l'hanno ben rappresentata, a cominciare da Nell'anno del Signore di Luigi Magni. Questo affetto sincero spiega anche la cura che il regista ha messo nella direzione degli attori, seguiti scrupolosamente battuta dopo battuta, nella costruzione di un linguaggio che prende spunto dall'opera di Gioacchino Belli, e nell'aspetto visivo del film, e qui è evidente l'influenza delle stampe di Bartolomeo Pinelli e delle litografie di Thomas.
Infine c'è la Roma esoterica, dove, nei vicoli e sotto i ponti, dietro Castel Sant'Angelo (che è un'ex prigione) e fra le colonne di San Pietro, si annidano i fantasmi, in particolare quelli di persone assassinate o che hanno avuto una morte violenta. Nella città che è stata il simbolo dell'Impero Romano, ci sono state fin troppe esecuzioni e stragi, e se anche Il Principe di Roma non ce lo ricorda esplicitamente, dovremmo individuare noi delle similitudini con il nostro mondo e il nostro tempo, e in fondo basta guardare il fratello rivoluzionario di Meo ridotto in povertà per stabilire delle analogie.
Se invece, guardando Il Principe di Roma, preferiamo solo divertirci e non pensare a niente, possiamo stare sicuri che Sergio Rubini, Marco Giallini, Giulia Bevilacqua e i due già citati Timi e Battiston esaudiranno questo nostro desiderio di leggerezza.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali