Il Primo Re: recensione del film di Matteo Rovere con Alessandro Borghi e Alessio Lapice
Un film complesso e importante che parla di religione imperscrutabile e libero arbitrio, hybris e amore fraterno.
Se decidete di andare a vedere Il Primo Re, scordatevi i bicipiti oliati e i perfetti addominali obliqui di Brad Pitt in versione Achille rigorosamente etero di Troy, dimenticate i fatti storici alterati per esigenze di copione, e infine non pensate ai movimenti in ralenti di volti e arti colpiti da pugni e calci e a quel pizzico di "tamarraggine" delle sequenze d'azione in CGI di tanto cinema hollywoodiano. L'imperativo categorico a cui ha obbedito Matteo Rovere, nell'avvicinarsi alla storia della fondazione di Roma, è stato infatti "il realismo prima di tutto": nel linguaggio, nei costumi, nelle location laziali (fra zone paludose, montagne rocciose e boschi mediterranei), nel fango con cui gli attori si sono sporcati e nell'interpretazione tanto dei sublimi protagonisti quanto dei non protagonisti, con le loro facce da gente vera segnate dalla fatica, talvolta da rughe profonde o da piccole deformità.
Che piaccia o no, che emozioni o no, perché non è detto che ci riesca, visto che fa leva su concetti elaborati che potrebbero anche non arrivare al cuore di spettatori intontiti dal cinema di puro intrattenimento, Il Primo Re è un film rivoluzionario. Lo è, innanzitutto, perché trova il coraggio di percorrere, con filologica precisione, un genere che da noi non gode di grande frequentazione. E poi ha il dono di ammaliare la nuova regia di Rovere, nel viaggio non frenetico e simbolico di un fratello ferito e un altro che si improvvisa capo-branco, ed è un racconto che ipnotizza, soprattutto nel suo soffermarsi sui rituali di una religione arcaica e potentissima e legata al fuoco, un fuoco che è calore, abbraccio femminile, ma anche ferocia, morte e carne martoriata.
La religione... ecco di cosa parla in particolare (ma non solo) Il Primo Re, di un Dio che, come spiega la frase di Somerset Maugham citata in apertura, è tale solo se non può essere compreso, un Dio che si identifica con il destino, contro cui Remo ha l'ardire di ribellarsi rivendicando il diritto di esercitare il libero arbitrio. Nella fattispecie è di un atto di hybris che racconta l'autore de Gli sfiorati, riandando ai tempi del mito e creando una serie di interessanti dialettiche, non ultima un'opposizione fra l'amore per il proprio gemello e il desiderio di pensare al bene comune, al gruppo, alla società. E proprio in quest'ultima volontà, rivendicata a fine corsa, sta tutta la modernità, l'attualità de Il Primo Re, che fa attenzione a non sbandierare il suo messaggio, preferendo affidarsi, scevro da ogni grandeur o campanilismo, all’intuito di chi saprà capire. Ecco perché la Roma che il film narra non è fin da principio caput mundi, ma un inizio di civiltà che nasce dal dolore, da uno strappo, da un'innaturale separazione fra esseri che sono venuti al mondo contemporaneamente e che, fin dalla bellissima sequenza iniziale di una colossale esondazione del Tevere, si cercano e si chiamano, e si afferrano sopra e sotto l'acqua.
E' l'affetto fra Romolo e Remo, il loro indissolubile legame, la materia incandescente, l'anima del film di Rovere, che si conferma regista del rimettersi in discussione e della verità, e che dallo sgangherato antieroe Loris di Veloce come il vento passa tranquillamente a un villan che poi villain non è, se non nella sua sbagliata convinzione che il potere si eserciti efficacemente solo attraverso la paura. Certo, nel film, il carisma pende più dalla sua parte che non da quella di Romolo, che si risveglia dal suo torpore forse con un po' di ritardo, dando l'impressione di non giustificare fino in fondo la sua presa di posizione, a meno che non la si consideri una rinascita dopo la sofferenza.
Sappiamo che costruire il mondo de Il Primo Re non è stato semplice per Matteo Rovere, che ha chiesto aiuto a storici e archeologi. Il suo più grande merito nella ricerca di autenticità, al di là della scelta di Daniele Ciprì come direttore della fotografia, è, secondo noi, quel latino arcaico che Alessandro Borghi e Alessio Lapice (in primis) hanno imparato e introiettato, alternandolo a silenzi carichi di ansia, timore e violenza in cui a parlare e a raccontare conquiste e dilemmi è stata una fisicità non urlata ma solida, e occhi carichi ora di pietas ora di rabbia. Bisogna un po' affezionarsi a quegli occhi belli, perché Il Primo Re non è un film da colpo di fulmine. E’ un sistema complesso, ha bisogno del suo tempo di posa. E' come una digressione di Philip Roth che va letta pian piano o come una sinfonia di Rachmaninov da ascoltare con attenzione prima di coglierne tutto lo splendore. Occorre prendersi del tempo, insomma, aprirsi e... fare il salto. La speranza, come già detto, è che il pubblico sia pronto.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali