Il diavolo veste Prada: la recensione della commedia con Meryl Streep e Anne Hathaway
Il mondo della moda sulla sfondo della storia di crescita di una giovane arrivata a New York che inseguire il sogno di scrivere su una rivista prestigiosa.
Il brutto anatroccolo, che poi tanto brutto non è, visto che dopo poco, con un occhiale in meno o un abile colpo di spazzola si tramuta in una principessa pronta a mille avventure e a conquistare cuori. Un piccolo sotto genere a Hollywood, quello della bruttina che prende consapevolezza del proprio fascino, e in fondo fa parte di questo filone anche Il diavolo veste Prada di David Frankel, ormai una commedia classica contemporanea, il racconto di formazione di una ragazza, Andrea (Anne Hathaway), che insegue il suo sogno di arrivare a New York per scrivere in una prestigiosa rivista, del tipo The New Yorker o Vanity Fair. Per farlo, però, pensa di provare a percorrere l’accidentata ma invidiata strada di sopravvivere per un po’ come “seconda assistente” della terribile, vulcanica, carismatica e potentissima direttrice di una rivista di moda, di nome Miranda Priestley (Meryl Street, nel più iconico dei suoi ruoli comici). Tornando a parlare di immaginario disneyano, il brutto anatroccolo deve vedersela con una strega perfida, cercando di mantenere il cuore del suo principe azzurro. Non è infatti molto convinto fin dall’inizio il “suo” Nate, un umile lavoro nelle cucine di un piccolo ristorante, e con un suo sogno anche lui, quello di diventare chef.
Andrea è sciatta, preferisce l’acrilico ai nobili tessuti e la penna alla spazzola. Appare goffamente al colloquio con la “prima assistente” della Priestley, Emily (Emily Blunt, come la Hathaway è stata lanciata con questo ruolo). Uno sguardo è sufficiente per darle poche speranze di superare l’esame spietato della boss, che invece, a sorpresa, decide di darle una possibilità, di rispondere alla vocina che le dice che in fondo potrebbe somigliarle di più di quanto pensi, e che per una volta può cambiare, passando da scegliere l'ennesima taglia 38 fighissima, elegante, ma sciocca, e “assumere la ragazza sveglia e grassa”. Come dire, è così disinvolta Andrea, poco interessata a un lavoro che “milioni di ragazze sognerebbero”, da finire presto assunta, inglobata nel ritmo frenetico di una routine folle, dalle richieste motivate solo dalla voglia di metterla alla prova e dal dualismo imposto con Emily, che la presenta così: “è lei la nuova me”.
Come prevedibile l’inizio sarà a dir poco problematico, ma Andrea è tosta, è resiliente, per utilizzare una parola molto popolare nella New York Post 11 settembre, ha la forza di rialzarsi. La aiuterà lo stilista braccio destro di Miranda, Nigel, uno Stanley Tucci in uno dei ruoli più ficcanti della sua carriera comica da caratterista di lusso, iniziandola agli abiti e agli accessori firmati. La sognatrice pura in cerca di un mondo da cambiare verrà “corrotta” dal glamour, dal mondo della moda proprio indossando per la prima volta un paio di scarpe di Jimmy Choo, divenendo non Cenerentola, ma l’assistente perfetta, pronto a esaudire ogni richiesta più strampalata della sua Miranda, che gradisce sempre di più e inizia a considerla la sua protetta. “Cosa ti fa pensare che la moda non mi interessi?”: una frase che aveva detto a Emily all’inizio e che ora sembra da prendere sul serio.
Ha venduto il suo tempo, i suoi amici, per farsi inghiottire dal lavoro e dall’ambizione? Verrebbe da dire sì, se fossimo in epoca di sana rivendicazione femminista di una carriera, mentre siamo all’interno di una storia piuttosto classica nel definire i ruoli di maschio e femmina; come detto più volte siamo prossimi alla morale disneyana. In ogni caso c’è un momento in cui Andrea si trova a difendere Miranda con una frase che anni dopo sarebbe diventata più utilizzata per reagire al luogo comune che vede negativamente il carattere della donna di potere. “Se Miranda fosse un uomo direbbero solo quanto è in gamba nel suo lavoro”.
Il diavolo veste Prada prende spunto evidentemente dalla figura della mitica direttrice di Vogue, Anna Wintour, alle cui dipendenze ha lavorato per anni la scrittrice del romanzo da cui il film è tratto, Lauren Weiberger. Non mancano apparizioni di modelle come Giselle Buendchen e Heidi Klum, in un film divertente, che si regge su dialoghi ficcanti e tre interpretazioni molto caratterizzanti oltre che efficaci. Spinge all’estremo il product placement negli anni della sua esplosione definitiva nei media oltre che al cinema, da sempre affine alla moda e mai come in questo caso aderente in maniera perfetta, in una confusione fra gli stilisti in carne ed ossa e i loro capi di moda, in pelle o seta. È efficace, anche se ancora tristemente attuale, l’ironia su un mondo in cui anche le assistenti digiunano come le modelle a colpi di “ora mi serve solo una colite e arrivo al peso idele”, o “i vestiti che indossi non te li meriti, tu mangi carboidrati”.
Il tutto si conclude nella degna cornice della sfilate di Parigi, occasione per l’esplosione finale e il ritiro dalle scene della nostra eroina di un’altra epoca, addirittura del giornalismo cartaceo, a un passo dall’entrata in scena, proprio mentre si stava aprendo definitivamente il sipario.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito