Ferrante Fever: recensione del documentario sulla scrittrice Elena Ferrante
Giacomo Durzi non si lascia tentare dall'enigma dell'identità della scrittrice e spiega le ragioni del suo successo.
Ma come? Ci aspettiamo di girare fra le strade di Napoli, anche se lontano dai suoi luoghi più convenzionali, e invece veniamo catapultati a New York, sopra al Brookyn Bridge, in una di quelle librerie quasi d’epoca che ancora rimangono gloriosamente in piedi o nell’elegante ufficio tutto vetrate di un critico letterario? Ma… non ci troviamo in un documentario che parla di Elena Ferrante, scrittrice dall’identità sconosciuta e autrice della celeberrima tetralogia de "L’Amica Geniale"? Certo che siamo nel film di Giacomo Durzi Ferrante Fever, ma proprio perché nel titolo è contenuta la parola "febbre", è bene cominciare nel paese straniero in cui romanzi della misteriosa autrice hanno creato una community di fedelissimi, un circolo di adoratori che comprende anche Jonathan Franzen, che leggendo di Lila e Lenù si è lasciato andare alla commozione.
Da lui come da Elizabeth Strouth, e perfino dalla voce di Hillary Clinton che si sente in apertura, non aspettatevi la risoluzione dell’enigma che riguarda la donna di lettere. No, perchè Durzi e la giornalista Laura Buffoni (co-autrice della sceneggiatura), proprio non hanno corso il rischio dell’inchiesta giornalistica, evitando la copia carbone di uno dei tanti articoli che andavano a caccia della persona che si celava dietro alla scrittrice. Di comune accordo i due hanno piuttosto analizzato il suo successo, non come fenomeno sociologico ma affidandosi al parere di "espertoni" e menti illuminate del calibro di Roberto Saviano e Nicola Lagioia.
Ciò che ne viene fuori è un film certamente non pettegolo, furbetto e modaiolo, ma un viaggio nei temi affrontati in un pugno di ottimi libri che esclude tuttavia qualsiasi voce critica. Gli intervistati, in fondo, sottolineano tutti le stesse caratteristiche (in primis la capacità della Ferrante di raccontare l’amicizia e la sua scrittura fortemente intima), e nessuno si produce in un’interpretazione singolare, in un appunto, o in un approccio magari viscerale. Nel coro di lodi, inoltre, mancano i punti di vista di chi legge E.F. in metropolitana, in treno o sotto l’ombrellone, di chi la ama senza chiedersi perché. Sì, c’è la proprietaria della libreria di cui sopra, ma la gente comune? I napoletani? Viene da chiedersi, poi, visto che una buona (e bella) parte del doc è dedicata a Mario Martone e alla sua trasposizione de "L’amore Molesto" e al film di Roberto Faenza ispirato a "I giorni dell’abbandono", per quale motivo non ci sia l’intervento di Saverio Costanzo, che porterà in televisione il ciclo de "L’amica geniale".
Sembra, insomma, che Ferrante Fever non renda pienamente giustizia alla complessità del fenomeno Ferrante e che abbia la funzione di costituire un’ottima introduzione alle creazioni della scrittrice destinata a chi ancora non le ha conosciute e assaporate. Il che va bene, perché la curiosità dello spettatore viene comunque stimolata ed è già un miracolo che al centro di un documentario possa esserci la letteratura. Certo, allargare gli orizzonti avrebbe giovato al film.
Però (perché un però c’è), accanto a questa parte un po' "scolastica", in Ferrante Fever c’è una parte poetica - e appena malinconica - che gli dà grande dignità: sequenze d’animazione nelle quali un'Elena Ferrante immaginaria si racconta con la voce di Anna Bonaiuto. E’ qui che il mito quasi svanisce per diventare essere umano, per esistere solo come donna che dubita, tentenna, pulsa, soffre, si sente "smarginata" e teme la "frantumaglia", che poi è l'effetto del senso di perdita. Ascoltandola ringraziare per un film o ribadire il proprio desiderio di restare nell'ombra, si apprezza la sua discrezione e il suo rifiuto della logica dell'apparire, e così la curiosità di vederla in carne ed ossa sfuma. E subentra il rispetto.
Insieme ad Elena, incontriamo i personaggi dei suoi romanzi, che ne completano l'identità. Quanto all'identità di Ferrante Fever, è difficile comprenderla in pieno. Il film di Durzi è di sicuro un atto d'amore che non si confonde mai con l'omaggio manicheo. A volte resta in superficie, a volte invece si tuffa nelle profondità di un animo femminile pudico ma ardente, che si confonde con Delia de L'amore molesto (ancora Anna Bonaiuto) che attraversa la città di "'O sole mio" vestita del colore della passione: il rosso.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali