Criminal: la recensione dell'action-thriller con Kevin Costner
Altro che Frankenstein, che pure c'è: qui si guarda a Face/Off e al più recente Self/Less.
Altro che Frankenstein, pur evocato. Criminal, semmai è un imperfetto incrocio tra il Face/Off che segnò l'esordio hollywoodiano di John Woo e il ben più recente Self/Less di Tarsem Singh, col quale ha in comune perfino un protagonista, Ryan Reynolds.
Di entrambi, infatti, il film dell'israeliano Ariel Vromen riprende il tema di un fantascientifico trapianto (che in questo caso è quello della memoria di un uomo impiantata nel cervello di un altro), in seguito al quale nasce una sorta di scontro schizofrenico, e anche generativo, tra le due soggettività.
Ma, a ben vedere, del film di Woo questo riprende, aggiornandolo, anche un certo modo di fare cinema d'azione: un cinema nel quale, nel contesto di un mondo sempre più digitale e dove anche il terrorismo si fa sempre più spesso cyber, l'interazione tra i corpi, lo scontrarsi di veicoli, l'utilizzo delle armi (da fuoco e non) sono squisitamente fisici e analogici.
Anche nella forma, quindi, ibrida e sospesa tra due tempi che sembrano due mondi diversi, Criminal ripropone la scissione che nella trama è nella testa e nel carattere del personaggio interpretato da Kevin Costner, un criminale psicotico e patologicamente privo della capacità di provare sentimenti nel cui lobo frontale viene innestata la memoria di un agente della CIA fatto fuori dal villain di turno, un multimiliardario spagnolo che ha mollato l'industria hi-tec per promuovere l'anarchia in giro per il pianeta.
Ma se nella testa di Jericho Stewart qualcosa cambia, e il meticciato di neuroni che si ritrova in testa finisce con l'essere fecondo (del concetto di bene e male, di giusto e sbagliato, di sentimenti mai provati prima come amore e empatia), sullo schermo le cose collidono sempre più forte, sempre più drammaticamente, in maniera sempre più disordinata e conflittuale.
Fino a che l'intreccio è quello di un banale e comune thriller para-spionistico, il copione di Douglas S. Cook e David Weisberg regge, e la regia di Vromen è adrenalinica al punto giusto, senza svolazzi eccessivi. Col complicarsi delle vicende, e l'aumentare dei piani narrativi, però, Criminal sbanda in maniera piuttosto pericolosa, sbattendo qui e lì contro le barriere del buon senso e del ridicolo involontario.
Perfetto esempio delle derive pericolose del film è il personaggio che è affidato a un attore superbo come Gary Oldman, uno dei tanti nomi notevoli messi assieme in un cast che comprende anche Tommy Lee Jones, Alice Eve, Gal “Wonder Woman” Gadot, un Michael Pitt in versione hacker olandese e la tedesca Antje Traue, garanzia di solidità. L'inglese, qui, è un responsabile della CIA a Londra che non sa nemmeno cosa sia il sangue freddo, fa una cazzata dietro l'altra e crea solo confusioni abbaiando istericamente, fino a una risibile trasformazione finale.
Paradossalmente, nella sua mancanza di equilibrio e di misura, e in alcune linee di dialogo da risata a scena aperta, Criminal riesce comunque a non annoiare, e a fare di Jericho un anti-eroe anni Ottanta tutto sommato credibile, quando non indulge in eccessi di sentimentalismo, che va avanti a calci, cazzotti, colpi di pistola e perfino accette. Un fantasma hollywoodiano in carne e ossa, sbucato dal passato, che impara presto le regole (tutte molto semplici e superficiali) del nuovo cinema d'azione che deve fare i conti con la concorrenza dei cinecomic e delle franchise.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival