Chiudi gli occhi: recensione del thriller psicologico di Marc Forster con Blake Lively
Una donna sconvolge il suo matrimonio riacquistando la vista.
Nel cinema contemporaneo Marc Forster è una figura difficilmente classificabile. Costantemente in cerca di nuovi generi da affrontare, spesso in altalena fra film riusciti e altri decisamente deludenti, si è fatto conoscere ormai molti anni fa con alcuni film subito entrati nel radar dell’Academy come Monster’s Ball, sopravvalutata irruzione nel cinema che conta di Halle Berry, e Neverland. Un film indipendente girato nei margini dell’America profonda, poi un adattamento in costume, puro spettacolo hollywoodiano. In seguito ha alternato storie personali del tipo Vero come la finzione con giocattoloni come World War Z e addirittura un Bond movie, Quantum of Solace. In questo Chiudi gli occhi, accolto freddamente al Toronto Film Festival, sembra tornare sul terreno visivamente ardito e ambizioso di Stay. In entrambi i casi il punto di partenza è un incidente in cui muoiono i genitori del protagonista, nel 2005 era Ryan Gosling mentre oggi è Blake Lively, nei panni di Gina.
Fin dall’inizio, la rievocazione dell’incidente e la continua attività onirica di una donna non vedente in seguito a quel trauma vissuto da bambina, Forster si mette alla prova con uno stile visivo molto particolare, che potremmo definire liquido, con cui rendere la cecità di Gina e il suo proiettarsi continuamente mille immagini nella testa, come sogni a occhi chiusi o aperti, per lei poco cambia. L’atmosfera livida in cui è ambientato il film è quella di Bangkok, Thailandia, in cui la protagonista vive insieme al marito James (Jason Clarke) una vita apparentemente molto felice, in cui l’handicap viene superato con serenità dall’amore con cui lui si prende cura della sua amata.
A un certo punto si intravede la possibilità di recuperare la vista, almeno ad un occhio, grazie ai progressi della medicina. L’intervento, riuscito, cambierà naturalmente la vita dei due, con Gina capace di vedere il mondo intorno a sé, e soprattutto se stessa, la sua bellezza e la rinnovata voglia di vivere con cui vuole affrontare ora la vita: truccandosi, vestendosi elegante, rendendo in questo modo, però, anche meno indispensabile la presenza di James, che dice di ‘aver trovato diverso rispetto a come me lo aspettavo’.
Il loro era un rapporto d’amore o di dipendenza, destinato quindi ad esaurirsi con la rinnovata capacità di vedere e vivere autonomamente? Sono molti gli interrogativi che Forster pone, insieme al suo cosceneggiatore Sean Conway, fra gli autori della serie televisiva Ray Donovan. Un thriller psicologico in cui le premesse vengono dilatate per fin troppo tempo, mettendo alla prova la pazienza degli spettatori, una volta esaurita la fascinazione per una nuova grammatica visiva messa in piedi per rendere il punto di vista di una non vedente.
Chiudi gli occhi sceglie una via ambiziosa, a costo di disturbare lo spettatore più che sedurlo, concentrandosi in un mondo estraneo ai suoi protagonisti, che mai danno la sensazione di una vera intimità, di una famiglia. Un microcosmo sospeso in un altrove poco rinoscibile, in un film che ha il merito di non somigliare a nessun altro. Peccato per la sbrigativa e prevedibile esplicitazione delle necessità dell’etichetta con il genere: thriller. Se la cavano con professionalità Jason Clarke e Blake Lively, che conferma di non essere solo una bella presenza.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito