Bullet Head: la recensione del thriller canino con Banderas, Brody e Malkovich

20 marzo 2020
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La terza regia di Paul Solet è l'opera di un cinefilo/cinofilo a metà tra Cujo e i film di Tarantino e Guy Ritchie. Gli ingredienti non sono ben amalgamati ma vale la pena di vederlo comunque.

Bullet Head: la recensione del thriller canino con Banderas, Brody e Malkovich

Tre ladri, due veterani e un ragazzo raccolto per l'occasione, che a quanto pare è quello che ha suggerito il colpo, si rifugiano in quello che sembra un enorme magazzino abbandonato. Con sé hanno la cassaforte rubata, ma il loro autista è morto e devono aspettare che qualcuno li venga a prendere mentre si nascondono dalla polizia. Ma il capannone è il luogo in cui si svolgono feroci combattimenti tra cani, organizzati da uno spietato ed elegantissimo boss, il cui orgoglio è un mastino allenato e allevato a suon di testosterone, che si chiama... De Niro.

Hanno tutti nomi di attori famosi i cani che si sfidano all'ultimo sangue in Bullet Head, bizzarro action thriller e terzo film di Paul Solet, regista di due apprezzati horror (inediti da noi) come Grace e Dark Summer. Ed è il film di un cinefilo cinofilo che dedica il film al suo cane, amico e maestro, e, come scritto sui titoli di coda, devolve parte degli incassi del film (non molto temiamo) a chi lotta contro la barbara usanza dei combattimenti tra cani. E su questo leit motif è costruita questa opera bizzarra, che si fa guardare, a tratti diverte e alla fine si rivela il tipico guilty pleasure da vedere in compagnia. Bullet Head è una di quelle strane visioni alla fine delle quali ci sia chiede cosa abbiamo visto e che però non annoia. Il fatto è che gli elementi di interesse non mancano, ma è come se fossero grumi non amalgamati in un impasto che non risulta mai omogeneo.

Sarà perché i dialoghi e le ambientazioni, che richiamano Guy Ritchie e Tarantino,  suonano troppo scritti e pensati, o perché i flashback, per quanto sensati nell'economia della storia, sembrano inserti appiccicati a caso, ma Bullet Head manca di fluidità e necessità nel racconto. Quello che ci piace e ci diverte però, sono le scene in cui il feroce mastino Terminator dà la caccia ai poveri malcapitati: ben dirette le sequenze d'azione, discreta la suspense e ottimo il lavoro degli stuntmen. Nelle storie personali dei protagonisti essere una persona che preferisce i cani o i gatti, un pesce d'acqua dolce o salata significa che nel loro ritrovarsi per caso in quel posto c'è un destino, un karma o come lo vogliamo chiamare. Chi è più empatico sopravvive, chi è ormai cinico e disincantato, o ha superato abbondantemente il limite, è carne da macello.

Stupisce la scelta di Adrien Brody di dividere la sua carriera post-Pianista tra i film di Wes Anderson e i film di genere, ma non ci dispiace affatto il suo look da action con codino e grinta da vendere, mentre John Malkovich nei panni del collega e amico più anziano sembra un po' annoiato come il suo strascicato modo di parlare (almeno nella versione originale). Antonio Banderas è un cattivo bidimensionale, l'unico che non abbia una back story mentre ci piace sempre di più Rory Caulkin, talentuoso fratello minore della meteora Macaulay Caulkin, qua nel convincente ruolo del giovane tossico, un po' sprecato dalla sceneggiatura. Tra barboncini tolettati da tartufo (la parte extra action più divertente del film), agguati slenziosi, assalti furibondi, capriole e tuffi, sangue sudore e lacrime, si arriva alla fine di Bullet Head senza quasi accorgersene e anche se il risultato finale lascia con l'amaro in bocca, si intravede qua e là una buona mano registica e restano impressi alcuni momenti (quelli che gli americani definirebbero “WTF”?) di cui ancora ci chiediamo come diavolo siano venuti in mente al buon Solet.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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