We Live in Time, il tempo della vita: incontro con il regista John Crowley
Il regista e drammaturgo di Brooklyn torna con una storia romantica fra melodramma e leggerezza, un equilibrio mirabile fra i drammi e le gioie di una vita vissuta insieme da una coppia in gran forma di interpreti, Garfield e Pugh. Abbiamo incontrato il regista John Crowley.

Un incontro per caso, e le vite di Almut (Florence Pugh), una chef in ascesa, e Tobias (Andrew Garfield), appena uscito da una relazione complessa, cambiano per sempre. Nel nuovo melodramma struggente e commovente, doloroso e leggero, We Live in Time, il regista di Brooklyn, nonché apprezzato drammaturgo britannico, John Crowley, conferma la capacità di scavare nelle pagine più nascoste dei suoi personaggi, aiutato da due magnifici attori in grande forma e perfetta alchimia.
Nel corso di momenti distribuiti nel corso di alcuni anni, avanti e indietro con lo sprezzo del pericolo di una vita vissuta con amore puro e intensità, il film racconta l’innamoramento e la durezza di un percorso, come quello di tutti noi, costretto a combattere contro la dittatura del tempo.
Abbiamo incontrato a Roma il regista, John Crowley.
Quanto era importante evitare il patetismo e la retorica, con momenti di grande emozione e leggerezza che si alternano?
Bilanciare questi due elementi è stato il compito principale durante il montaggio. Abbiamo lavorato molto duramente durante le riprese con gli attori per ottenere, soprattutto in alcune delle scene più cupe, momenti di giocosità e leggerezza. Naturalmente, una volta compresa la dinamica, entrambi gli attori hanno adorato farlo, perché riuscire a passare al tono opposto, in una scena molto emozionante o cupa, è come guardare dei trapezisti, che si muovono da un elemento all’altro con grande velocità. Si sono divertiti a interpretare personaggi resi in questo modo più completi. Ma è stata anche la sfida al montaggio, non lasciare il pubblico solamente triste, ma cercare di trasmettere cosa voglia dire essere vivi, come sia spesso completamente assurdo. Per tutti i progetti che tu possa fare, la vita ha la sua idea al riguardo, devi solo avere del senso dell’umorismo per affrontarla.
I due protagonisti sono molto credibili, con le loro fragilità. In che modo hanno elementi caratteriali che appartengono agli attori che li interpretano, Andrew Garfield e Florence Pugh, perché sembrano avere molto in comune?
La cosa interessante è che sono stati scritti in modo molto specifico. Forse è per questo che ho pensato a entrambi gli attori per i ruoli, in origine, perché sentivo che entrambi sarebbero stati adatti. Ma è vero che hanno interpretato il personaggio al di fuori di sé stessi. Non volevano fosse troppo simile a loro. Ma il paradosso è che a volte più accogli la differenza con il personaggio e lo interpreti in maniera onesta, più assomiglia semplicemente a te stesso. Una delle ragioni per cui è stato un grande piacere fare il film, e ora lo è vederlo con il pubblico, è poterli vedere di nuovo al lavoro a casa a Londra, dopo aver fatto cose straordinarie in America e all’estero. Interpretano personaggi inglesi contemporanei che in realtà non sono così diversi da loro, nonostante quello che possano pensare. Ma questo è il paradosso della grande recitazione, puoi interpretare qualcuno che è totalmente diverso da te ed esprimere il modo in cui tu vedi il mondo. È un apprezzamento per l’onestà con cui hanno affrontato questi personaggi. È molto interessante come Florence abbia detto che stava attraversando al momento delle riprese qualcosa di molto simile a ciò che stava vivendo Almut nel film, la sentiva molto vicina in vari aspetti. Ha accettato la parte pensando che fosse un bellissimo ruolo contemporaneo, poi è rimasta sorpresa nello scoprire che nella vita stava vivendo molti dei dilemmi di Almut. Andrew ha un legame molto forte con il dolore di Tobias, ha perso sua madre non molto tempo fa. Ha sofferto e soffre ancora oggi profondamente la perdita, il che gli ha permesso di accedere a alla profondità emotiva necessaria.
We Live in Time è una storia totalmente concentrata sui personaggi e le loro interpretazioni, il che mi permetta di dire è ossigeno puro. Nel cinema mainstream è sempre più raro scavare così nei personaggi. C’è spazio nel cinema indipendente per distinguersi in questo modo dall’ossessione per i supereroi che impera a Hollywood? Le star sono soprattutto attori, devono interpretare questi film.
Sono le storie con cui sono cresciuto e che mi hanno fatto venire voglia di fare film. Non ho problemi con i film di supereroi o con i film di genere, vanno benissimo. Ma penso che lo spazio per film più personali si sia ridotto. Se riesci a vedere un grande attore, che è anche una star del cinema, fare un gran lavoro, allora è il massimo. Un grande storico del cinema inglese, David Thompson, ha detto una volta qualcosa di molto speciale, e cioè: non c'è niente di più bello al mondo del primo piano di un volto che cambia idea. Penso sia vero, penso che sia una delle grandi meraviglie del cinema, per quanto ami anche l’approccio alla David Lean, legato allo spettacolo e alla dimensione epica capace di suscitare stupore, ma anche un viso da vicino può riuscirci, osservando le emozioni che scorrono attraverso quel volto. Un’infinità di emozioni possono accadere anche nella vita quotidiana. Il cinema vissuto anni difficili, per usare un eufemismo, con l'ascesa degli streamer, il COVID, lo sciopero. In un certo senso sembra sotto attacco. C'è molto nervosismo nel fare film come questo. Ne ero consapevole, molti dei finanziatori erano cauti e nervosi perché pensavano: è un film sul cancro, sulla morte. Sì, ma è anche un film su molte altre cose. È un film sulla vita, con due attori magnifici che sono anche delle star del cinema. Se avessero fatto un buon lavoro, ci sarebbero state molte persone felici di venire a vederli.
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Le location sono interessanti. C’è qualcosa di molto contemporaneo, come il ristorante un po’ hipster in cui lavora la chef protagonista, ma anche una casa di campagna in cui nel corso della storia la coppia sembra andarsi a rifugiare nei suoi ambienti piuttosto angusti. Scelte che accompagnano il percorso emotivo dei personaggi?
È un'ottima domanda. Magari non è così ovvio, ma lo spazio nel film è organizzato con molta, molta attenzione. Ci sono molti di quelli che chiamavamo spazi liminali, cioè di passaggio. Si incontrano in una strada, ci sono corridoi di ospedali, supermercati e altri ancora. È tutto molto simile alla camera di un albergo, spazi funzionali che attraversi e vai avanti. Non sono spazi accoglienti o emotivi. Queste due persone si incontrano in quel mondo e poi cercano di costruirsi una vita insieme. Parlando del modo in cui i loro spazi personali si evolvono, all'inizio lui vive nella camera degli ospiti di suo padre. La casa, l'appartamento in cui si svegliano dopo la loro prima notte insieme, non è arredato. Lei ha tutto ancora negli scatoloni. Non ha disfatto le valigie. Nessuno dei due ha ancora organizzato la propria vita. È temporaneo, tutto ciò che riguarda la loro vita è concentrato altrove. Quando ritorniamo in quel posto, ci rendiamo conto di come sia lo stesso posto, ma si siano impegnati a vivere insieme. Alla fine finiscono per creare una vita insieme in un piccolo posticino fuori Londra. Il bisogno di crearsi una vita insieme è in contrasto con un mero passaggio attraverso lo spazio.
Molte notizie e situazioni importanti per la coppia sono mostrate attraverso ii volto dell’altro, rispetto a chi la comunica. Immagino abbia comportato un lavoro generoso e la ricerca di una grande intimità durante le riprese.
Abbiamo fatto due settimane di prove. Avevo già lavorato con Andrew Garfield in un film intitolato Boy A nel 2007, il suo primo film da protagonista. Sapevo quanto tempo dedica al suo lavoro, quanto lo prende sul serio e il lavoro di immaginazione che fa dietro le quinte per arrivare libero alle riprese. Florence Pugh la conoscevo solo attraverso il suo lavoro, che amo molto, non ha un background teatrale, non ancora, anche se sono sicuro che alla fine andrà in quella direzione. Quindi è più istintiva. Abbiamo fatto due settimane di prove per permettere a questi due attori molto diversi di trovare un modo per lavorare insieme e per me di capire come dirigerli. Un periodo di prove più per lo studio del copione che per esprimere l'emozione legata alle varie scene. Era come studiare una mappa piuttosto che scalare una montagna, permettendogli di imparare un po' l'uno dell'altra e abituarsi davvero all'idea che il film si sarebbe girato insieme e che non si sarebbe trattato di fare ognuno la propria parte in momenti diversi. Sul set i primi tre giorni sono stati leggeri, giusto per abituarsi l'uno all'altro, niente di troppo pesante. Poi siamo arrivati a girare una importante e intensa scena in un parcheggio sotterraneo. Molti dialoghi, solo loro due, doveva funzionare. Erano molto nervosi e abbiamo iniziato a girare. Ho capito subito che funzionava, perché mi commuovevo a guardarla, il direttore della fotografia a un certo punto ha dovuto allontanarsi, tra una ripresa e l’altra, perché era molto commosso. È andata alla grande. Dopo Florence ha detto: “Non capisco. È appena successo qualcosa lì”. E io ho detto: “Cosa intendi dire?”. Lei ha risposto: “È stato più facile di quanto avrebbe dovuto essere. E non capisco cosa sia successo”. Quello che stava dicendo non era che non fosse stata una scena difficile da recitare, ma che il livello di presenza che stava ricevendo da Andrew fuori dall’inquadratura era qualcosa che non aveva mai provato prima. E quel cerchio di energia che fluiva avanti e indietro significava che era stata semplicemente trascinata nella scena. Lo stesso per lui. Si sono subito fidati l'uno dell'altra. Il mio compito era quindi quello di organizzare il set in modo che ciò accadesse ogni giorno. È stato davvero speciale vederlo accadere. Forse è sorprendente che non accada più spesso.