I misteri del bar Étoile, con "i nostri clown che cadono e si rialzano": incontro con Abel e Gordon
Si sono incontrati a Parigi negli anni '80 e dopo anni di spettacoli dal vivo sono registi e protagonisti del sesto film, con uno stile burlesco e poetico, fra il mimo e la malinconia. Abbiamo incontrato Dominique Abel e Fiona Gordon per parlare de I misteri del Bar Etoile.

Il loro è un universo fantasioso e poetico. Vengono dalla scuola del mimo e dei clown, Fiona Gordon e Dominique Abel, registi e protagonisti sempre insieme, come nella vita, che ambientano nella loro Bruxelles (anche se Fiona è originaria dell’Australia) delle storie eccentriche come Parigi a piedi nudi e ora I misteri del bar Etoile, in sala per Academy Two dopo aver aperto lo scorso Festival di Locarno e recentemente i Rendez-Vous francesi di Roma.
Uno sguardo poetico e malinconico che a ritmo di danza e movimento questa volta sceglie il genere noir per raccontare dell’ex attivista della sinistra politica, Boris (Dominique Abel), che lavora in incognito come barista all'Étoile Filante. Una delle vittime lo identifica e reclama vendetta. La comparsa di un sosia, il solitario Dom, sempre interpretato da Dominique Abel, sembra fornire a Boris, alla sua ingegnosa compagna Kayoko (Kaori Ito) e al loro fedele amico Tim un perfetto piano di fuga. Non hanno calcolato però la ex moglie di Dom (Fiona Gordon), una sospettosa detective che si mette sulle loro tracce.
Abbiamo incontrato a Roma Abel e Gordon, che ci hanno raccontato qualcosa in più del loro quinto film.
"È una storia che abbiamo scritto molto tempo fa, ma ogni tanto riapriamo i cassetti. Penso sia stata l’agitazione sociale di questo periodo che ci abbia spinto a riprendere in mano questa storia. Un polar poteva permetterci di raccontare la nostra epoca a modo nostro. Percepiamo nella società un rancore generalizzato, è un momento di passaggio da ogni punto di vista, ambientale, sociale e politico. Nel film i bus non funzionano perché tutti scioperano e manifestano per strada, abbiamo giocato con questo. La nostra percezione clownesca della vita ci porta ad adattarci alle avversità, i clown sono dei tipi che costantemente cadono e si rialzano. Chaplin voleva partecipare al sogno americano, senza trovare un suo posto, essendo troppo piccolo, Tati era inadatto al modernismo. C’è sempre spazio, ancora più oggi, per un clown che rivendichi il suo non trovare spazio nella società.
Il clown è guardato come una figura sospesa nel tempo, ma il vostro film utilizza il genere per ancorarlo fortemente nella contemporaneità.
È la leggerezza che ci permette di andare dritti a raccontare gli avvenimenti che lasciano delle cicatrici e ci toccano nel profondo. Se li guardiamo frontalmente sembra di essere come ogni giorno davanti al telegiornale, non sapendo cosa fare. Guardarli con umorismo e poesia può permettere un punto di osservazione differente, magari ci consente di superarli. Per me funziona sempre così, mentre guardo i clown che mi piacciono, e la cosa mi aiuta. Riguarda la distinzione che facciamo fra il comico e il clown, spesso la commedia parla dei problemi di oggi e la gente ride su queste situazioni, ma fra dieci anni perde di senso, visto che le cose cambiano. Nel clownesco cerchiamo di trovare qualcosa che sia più permanente, atemporale e universale. Per questo che Chaplin viaggiava così bene attraverso le culture e le frontiere. Tutte si riconoscono, tutti siamo stati bambini o siamo caduti per terra.
I protagonisti sono ancora una volta molto attuali, provano un costante senso di colpa, come quello che viviamo tutti noi, non facendo abbastanza per l’ambiente o per migliorare il mondo in cui viviamo.
Lasciamo allo spettatore la possibilità di vedere quello che vuole in quanto raccontiamo. Boris, il protagonista, convive col senso di colpa, altri hanno un disagio che non riescono a superare. Persone differenti si sentono rappresentati da sentimenti differenti. L’importante è rendersi conto che con la risata si prende della distanza e si affrontano meglio le cose difficili.
Voi lavorate sempre con la stessa banda
È un po’ come il circo, c’è per esempio il gigante vendicatore Philippe Martz, con cui ci piace molto recitare e che ha codiretto alcuni nostri film. È come per Fassbinder o Pina Bausch, il nostro è un impegno molto fisico e ci piace scrivere per questi corpi, mantenendo la possibilità di aprirci come accaduto in questo caso con Kaori Ito, una danzatrice contemporanea giapponese che lavora in Europa, che ha portato dell’aria fresca, essendo capace di performance nel movimento incredibili. Anche la troupe è sempre la stessa, sono coinvolti nella creazione artistica, non arrivano la settimana prima delle riprese, lavorano mesi prima e discutiamo avanzando insieme nella preparazione.
I movimenti sono cruciali per voi, delle vere coreografie, come vi siete trovati in questo locale in cui è ambientato il film, L’étoile filante?
Non sapevamo all’inizio come sarebbe stato, è solo lavorando con gli altri artisti che lo abbiamo costruito passo dopo passo. Volevamo lavorare in studio, perché ci permetteva di creare una vera atmosfera da polar e scegliere ogni colore, cosa che possiamo fare quando giriamo in luoghi reali. Questo ha influito molto l’estetica, avendo carta bianca su come arredare gli ambienti. La facciata del bar l’abbiamo dipinta con dei colori vivaci, mentre a Bruxelles è spesso beige. Abbiamo visto con scenografo e arredatrici riferimenti come Blade Runner o Motherless Brooklyn, Green Book, per mettere del colore in un film noir.
Come lavorate nell’utilizzare la macchina da presa e il montaggio per dare ritmo a uno stile come il vostro che è abituale nello spettacolo dal vivo, nel mimo?
Non avendo pubblico, che al teatro è un partner essenziale, dobbiamo lavorare con altri strumenti. Ci piacciono le inquadrature semplici, vogliamo essere un po’ lontani per vedere il contesto in cui ogni personaggio evolve, ma per far ridere ci sono molte possibilità: le entrate e uscita di campo, delle cose che accadono sullo sfondo che non vediamo subito, quello che non vediamo ma sentiamo. Come in un quadro volgiamo però che sia lo spettatore a indugiare su quello che li attira, non vogliamo imporre lo sguardo con un movimento brusco di camera.