Squid Game 3, la recensione del finale: Cosa significa essere umani
La serie rivelazione di Netflix si conclude con una riflessione su empatia e umanità e un epilogo soddisfacente, anche se non perfetto. Ma, soprattutto, apre le porte a un nuovo capitolo che non vediamo l'ora di guardare: la nostra recensione di Squid Game 3.
- Empatia contro egoismo: Gi-hun contro il Front Man
- La recensione di Squid Game 3: Cosa funziona e cosa no
- Un finale soddisfacente, ma richiede fiducia
Con la terza e ultima stagione, disponibile dal 27 giugno su Netflix, Squid Game torna a ricordarci perché è diventata la serie più vista al mondo. È più spietata, più cupa ma, sorprendentemente, anche con una carica di umanità che ci coinvolge tutti emotivamente. Dopo una seconda stagione che aveva lasciato il pubblico diviso e molte trame in sospeso, il capitolo finale del successo globale di Netflix non si limita a chiudere il cerchio. Lo stringe con forza, tra emozioni crude e a volte disturbanti e colpi di scena memorabili. Il risultato è una stagione intensa, non priva di difetti, ma capace di intrattenere un pubblico trasversale e globale. Ok il K-pop, l'Oscar a Parasite e i dieci rigorosi step della skincare: ma chi avrebbe immaginato che una serie coreana potesse diventare un fenomeno mondiale? Squid Game è il miracolo più riuscito di Netflix e, in questa recensione, non possiamo che salutare questa serie con un inchino e qualche speranza.
Attenzione: seguono piccoli (ma non specifici) spoiler per chi non ha ancora visto la stagione finale, quindi vi consigliamo di continuare la lettura soltanto a visione ultimata.
Empatia contro egoismo: Gi-hun contro il Front Man
Nella terza stagione i giochi continuano, dopo il fallimento della ribellione armata organizzata da Gi-hun. Ci sono, ovviamente, vittime illustri, flashback illuminanti e persino qualche gradito ritorno dalla prima stagione. Ma al centro della storia c'è soprattutto lo scontro ormai insanabile tra umanità ed egoismo, incarnati rispettivamente da Gi-hun e dal Front Man (Lee Byung-hun). È un conflitto che attraversa tutta la stagione, ma che esplode con potenza nell'episodio finale, dove Gi-hun pronuncia la frase che riassume l'essenza della serie: "Noi non siamo cavalli, siamo esseri umani". È un momento forte ed emotivo che precede l'atto finale del protagonista. Forse una conclusione prevedibile ma sicuramente il punto più alto del discorso filosofico e sociale intavolato da questa serie. Gi-hun mostra definitivamente di che pasta è fatto, ci fa vedere l'umanità che vince sull'egoismo. A noi, ma soprattutto al Front Man (che forse intraprende timidamente la via della redenzione? O forse no).
La recensione di Squid Game 3: Cosa funziona e cosa no
In questa stagione, molto più action, la violenza è portata all'estremo. Le morti non sono solo più brutali, ma profondamente tragiche, perché colpiscono personaggi a cui il pubblico si è ormai affezionato. Le dinamiche di gioco si fanno più spietate, sebbene meno fantasiose rispetto alle prime due stagioni (i giochi, come nascondino e salto della corda, sono molto più "occidentali"). Il gioco del nascondino nell'episodio 2, però, è uno dei momenti più riusciti dell'intera serie e ci regala le sequenze più drammatiche.
Tuttavia, si percepisce come le stagioni 2 e 3 siano state pensate come una singola stagione. Alcuni episodi si dilungano e certi passaggi sembrano eccessivamente spiegati o, al contrario, lasciati troppo alla nostra interpretazione. Una nota stonata rimane la presenza dei VIP (sempre caricaturali, sempre fuori tono). Però c'è da dire che questa volta sembrano quasi voler rappresentare lo specchio del pubblico sollevando, in un sottile gioco metatelevisivo, interrogativi scomodi su chi davvero si stia godendo lo spettacolo: loro o noi?
Un finale soddisfacente, ma richiede fiducia
Il finale della serie riesce a chiudere quasi tutte le storyline principali: dalla conclusione dei giochi, alla parabola di Gi-hun, fino alle ombre nella storia della guardia 011. È un epilogo coerente, sebbene costruito su alcune svolte narrative che richiedono una certa sospensione dell'incredulità. È il caso dell'introduzione di un nuovo giocatore obbligato a partecipare (dai, davvero?). Ma se si è disposti ad accettare questo strano colpo di scena (è pur sempre una serie distopica, stateci), si viene ripagati da un finale che vale l'intera visione, con un'ultima scena che fa sgranare gli occhi. Così inaspettata e destabilizzante da aprire la porta a possibili nuovi scenari (magari ambientati in un altro continente? Noi diciamo sì!).
Eppure, nonostante la volontà dell'autore di chiudere tutte le linee narrative principali, una domanda importante resta. È quella che il detective Jun-ho (Wi Ha-joon) rivolge al fratello In-ho, il Front Man: "Perché lo hai fatto?". Rimane sempre attuale il messaggio sociale su cui Squid Game ha provato a far riflettere fin dalla prima stagione: l'orrore vero non è nei giochi, ma nella società che li rende possibili. E la speranza, per quanto fragile, risiede nella capacità di restare umani anche quando tutto intorno ci spinge a non esserlo. E se un altro Squid Game ci aspetta, in un altro luogo e con altre regole, rimane quella domanda: "Perché lo hai fatto?". Noi possiamo intuirne le motivazioni pensando al passato del personaggio (solitudine, frustrazione, disperazione per la perdita della moglie). Ma la vera risposta non arriva mai. E chissà se mai arriverà. Forse ci attende uno spin-off? Un prequel? Questa è un'altra direzione che il franchise potrebbe prendere. Dobbiamo solo dare fiducia a Hwang Dong-hyuk (o a David Fincher).
- Giornalista professionista
- Appassionata di Serie TV e telespettatrice critica e curiosa