Gomorra 5 ultimo atto: la recensione dei primi due episodi della stagione finale
Gomorra 5 recensione dei primi due episodi e riflessioni sull'epilogo della stagione finale della serie italiana di maggior successo nel mondo.
Dopo la strage con cui si concludeva la quarta stagione (Ferdinando Capaccio, ucciso da Enzo Sangueblu, Patrizia col marito Michelangelo Levante ad opera di Genny e Valerio, fatto fuori da O'Golia), Gennaro Savastano viene rinchiuso in un freddo bunker sotterraneo, protetto dagli uomini di O'Maestrale. Ed è lì che lo ritroviamo all'inizio di quella che ormai, lo sappiamo, è un'ultima stagione che prelude a una resa dei conti definitiva. Tormentato da incubi e da pensieri di morte, lontano da moglie e figlio, ignaro di quello che noi già sappiamo, ovvero che Ciro Di Marzio è ancora vivo e opera in Lettonia, a Riga, e che i sensi di colpa per la sua morte non hanno ragione di essere. Ricercato dalla polizia ma soprattutto dai due fratelli e dalla sorella superstiti della famiglia Levante, Genny è ormai tornato quello che ha cercato di non essere più: un animale feroce, che non riesce a stare in gabbia. Per questo tenta una sortita per anticipare le mosse dei Levante. Ma non sono loro gli unici a voler Gennaro morto: c'è Elia Capaccio O'Diplomato, membro dei Confederati a cui è stato assassinato il fratello dopo le torture, e c'è Don Aniello, lo zio, che è l'unico a conoscere la sorte di Ciro. Azzurra e Pietro Jr. nel frattempo sono lontani, per la loro sicurezza e forse in cerca di una vita migliore, quella che l'uomo a cui la ragazza ha sacrificato tutto le aveva promesso ma che non è stato in grado di assicurare a lei e al figlio.

Nel primo episodio di questa stagione, si ha la netta impressione che le gabbie in cui i personaggi si sono volontariamente rinchiusi si facciano sempre più strette, così come le catene che li avvincono, e il loro percorso sembra ormai tracciato in modo ineludibile: d'ora in poi è una linea retta che porterà inevitabilmente al termine della corsa. Da sempre, Genny non si fida di nessuno, perché in passato lo ha fatto ed è stato tradito, ma adesso agisce perennemente spinto da una rabbia che potrebbe togliergli lucidità ed essere la sua più grande debolezza. Dal punto di vista scenico, questi due primi episodi diretti da Marco D'Amore confermano la vocazione parallela allo scavo interiore nei personaggi - nessuno eroe e tutti strumento del male - e a una messa in scena spettacolare dell'azione che hanno contribuito a fare di Gomorra una delle serie più amate in tutto il mondo e sicuramente la più apprezzata tra quelle italiane. Merito di molti aspetti, tra cui la cura non solo della scrittura, ma anche la qualità della recitazione, l'attenzione per la regia, il sonoro, la costruzione della tensione (qua con una splendida sequenza all'interno del cimitero monumentale del Verano di Roma) e la sapienza di saper lasciare lo spettatore fuori dalla porta, ad ascoltare il rumore della violenza, come nel bellissimo finale di puntata. Perché in Gomorra, lo abbiamo visto, come nella realtà, la morte può arrivare in molti modi, a tradimento, dichiarata, con un colpo di pistola a bruciapelo, a mani nude, e a volte (sempre?) può essere una liberazione.

Nel secondo episodio, infine, assistiamo a quello che tutti aspettavamo: l'incontro tra Genny e il morto che cammina, riemerso dalla sua finta morte, Ciro Di Marzio. Fratelli, amici, acerrimi nemici, il loro destino è intrecciato in modo inestricabile. Che farà Genny quando se lo troverà finalmente di fronte, viso a viso, vicino quasi al punto di baciarlo, in questo amore/odio che li accomuna? E qua torna il motivo della prigione come espiazione e della fuga dell'animale inferocito, che sembra essere, a giudicare da queste due prime puntate, uno dei fil rouge che ci farà compagnia in questa ultima stagione, che ancora attende il ritorno di Enzo Sangue Blu e immette nuovi personaggi, come la moglie di O'Maestrale, Donna Luciana, una di quelle donne di camorra che a volte somigliano a vere e proprie Lady Macbeth. Ma, comunque vada a finire, sarà difficile d'ora in poi prescindere per i creatori di crime da una serie così ben pensata, scritta e realizzata, che ha gettato una luce accecante su un ambiente, comune alle periferie di tutto il mondo, che viene d'abitudine nascosto come la polvere sotto il tappeto. Se non ha cambiato la situazione, sicuramente Gomorra ha trasformato la nostra percezione, mettendo in scena per cinque stagioni quella che Stephen King avrebbe forse definito “una splendida festa di morte”.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità