Zodiac: la recensione del film di David Fincher basato su una storia vera

25 aprile 2020
3.5 di 5
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Zodiac è un punto di svolta nella carriera di David Fincher, punto di partenza per quello che poi il regista farà in film come The Social Network e Gone Girl.

Zodiac: la recensione del film di David Fincher basato su una storia vera

L’idea del racconto cinematografico come meccanismo di precisione, David Fincher l’aveva sempre avuta: se ripensiamo a Seven, The Game, Fight Club e perfino Panic Room, pensiamo a film nei quali il congegno narrativo è un vero e proprio feticcio.
Zodiac per il regista americano, è stato però il film di una svolta chiara ed evidente: il film dove l’ossessione per il meccanismo in sé viene prima di ciò che compie o realizza, e dove la nevrosi e la frenesia del racconto vengono raffreddati e congelati da una forma distesa e più distante. Una forma che, a sua volta, si disvela per quello che è ed espone il suo meccanismo allo spettatore più che stupirlo con i suoi effetti.
Detta in altro modo, Zodiac è il film dove David Fincher si prende due ore e quaranta di tempo per raccontare una storia di serial killer senza che questo venga individuato e consegnato alla giustizia, e dove le sue gesta efferate sono una parte largamente minoritaria - e marginali anche nella loro importanza narrativa - nel bilancio complessivo del racconto.

Il serial killer è quello cosiddetto dello Zodiaco, le cui efferate imprese avvennero nella California Settentrionale e nell’area di San Francisco proprio negli anni, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, nei quali il giovanissimo Fincher visse a San Anselmo, prima di trasferirsi in Oregon con la famiglia. Il killer che aveva ispirato la trama di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, con Clint Eastwood.
Ma a dispetto di quanto il giovanissimo Fincher venne colpito da quella storia e quel personaggio, Zodiac è tutt’altro che un film che trasfigura una vicenda alla luce dell’emozione e dell’immaginario di un autore.
Più che un thriller - anche se l’abilità del regista è tale che certe scene sono cariche di grande tensione: su tutte quella che vede Jake Gyllenhall scendere in un seminterrato con un personaggio che, si rende conto, potrebbe essere il killer - Zodiac sembra un procedurale, e in parte anche uno dei tanti film che a Hollywood hanno raccontato il mondo dei giornali e del giornalismo.

I tre protagonisti di Zodiac sono infatti il detective della polizia di San Francisco Dave Toschi (Mark Ruffalo); il giornalista del San Francisco Chronicle Paul Avery (Robert Downey Jr.); un vignettista dello stesso giornale, Robert Graysmith (Jake Gyllenhall), che divenne da subito ossessionato dalla vicenda del killer dello Zodiaco, lavorò a contatto con gli altri due per cercare di scoprirne la reale identità, e finì con lo scrivere su di lui i due libri che sono poi serviti allo sceneggiatore James Vanderbilt come base per il copione del film.
E la storia del film, raccontata in un arco di tempo che va dal 4 luglio del 1969 (quando il Killer dello Zodiaco uccise Darlene Ferrin e ferì gravemente Mike Mageau, che però sopravvisse) fino alla metà degli anni Ottanta, non è solo la meticolosa ricostruzione delle gesta del killer, ma prima di tutto quella dell’ossessione per la sua identità che accomuna i tre protagonisti, e che arrivò a influenzare o perfino a distruggere le loro vite e le loro carriere.

Per rimanere legati all’immagine del meccanismo e della sua precisione, Fincher lavora per la prima volta in Zodiac con l’attenzione minuziosa, la calma e la pazienza di un orologiaio, concentrando la sua attenzione su ogni singolo ingranaggio del suo congegno-film, allargando lo sguardo per mostrarlo nella sua interezza e focalizzando poi per farci ammirare il dettaglio.
La minuziosità con cui viene ricostruita la storia del killer dello zodiaco e dei tre personaggi che ne sono ossessionati riguarda anche le scenografie, i costumi, le musiche, le auto, le ricostruzioni degli interni. Mai in maniera sfacciata e sensazionalistica, ma in chiave quasi anti-spettacolare e documentaria. Tanto per fare un esempio, le tante canzoni vintage che compongono la colonna sonora del film sono spesso riconoscibili, ma non ci sono quei pezzi degli anni Settanta sentiti e risentiti da tutti noi in centinaia di altri film.

Il rifiuto di piegarsi alle regole del genere cui Zodiac in teoria appartiene, quelle regole che lo stesso Fincher, con Seven, aveva contribuito a modificare e ribadire, e più in generale la voglia di sottrarsi agli obblighi abituali del cinema diventa evidente quando, nel suo film, il regista tira in ballo proprio il primo Dirty Henry: per ribadire, in due distinte occasioni, come quello che il cinema aveva fatto in precedenza nel raccontare le storie di serial killer, non si applica né alla realtà - come dicono esplicitamente Toschi e Graysmith - né al nuovo cinema cui David Fincher è interessato.
Un cinema fatto di osservazione attenta di storie, vicende e personaggi, slegato dalla logica spietata della finalità narrativa ma tutto concentrato sul percorso, sulla descrizione, sull’analisi.

A Fincher non interessano nemmeno l’affresco, la Storia con la s maiuscola, il contesto e la sublimazione di quello che mostra. Libero - almeno lui - dall'ossessione per la soluzione e lo scopo, con Zodiac va mettendo a punto quello che poi perfezionerà in The Social Network, o in Gone Girl, e perfino nel suo Millennium: l’analisi attenta di un congegno, la rappresentazione del suo diagramma, il funzionamento del meccanismo.
Un congegno che riguarda la struttura vicenda racconta, la psicologia dei suoi protagonisti, e il loro confrontarsi col vuoto sociale ed emotivo che sembrano avere attorno a loro. All’impossibilità di afferrare un risultato, una verità netta e precisa, e della necessità di abbassare il capo di fronte a caos che nessun congegno, per quando perfettamente orchestrato e gestito, riuscirà mai a domare del tutto.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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