At Eternity's Gate: recensione del film con Willem Dafoe su Vincent Van Gogh in concorso al Festival di Venezia 2018

03 settembre 2018
2.5 di 5
65

Un biopic estetizzante e vagamente parassitario.

At Eternity's Gate: recensione del film con Willem Dafoe su Vincent Van Gogh in concorso al Festival di Venezia 2018

“Volevo solo essere uno di loro,” dice il Van Gogh di Willem Dafoe all’inizio di At Eternity’s Gate.
Ma tanto lo sappiamo tutti che lui, uno di loro, uno dei tanti abitanti di Arles e dintorni senza il suo talento e senza le sue turbe, il Vincent dei Girasoli non lo sarebbe stato mai. Così come sappiamo tutto quello che Julian Schnabel racconta, piuttosto ordinatamente, in questo film: la Casa gialla, Gauguin, l’orecchio, i manicomi, Auvers-sur-Oise, la morte misteriosa.

D’altro canto, ed era facile immaginarselo, più che la biografia e i fatti, è la forma a interessare Schnabel, l’intensità febbrile del gesto artistico, il tratto nervoso e tendente all’astratto della pennellata la visione del mondo e della realtà che è inevibilmente soggettiva, trasfigurante, personale. E il suo è un tentativo di restituire, col cinema, qualcosa che, in qualche modo, ci si avvicinasse: per imitazione o per analogia.

Se Gauguin (Oscar Isaac) suggerisce a Van Gogh di dipingere “quello che vede il tuo cervello,”, Schnabel prova a entrare nella testa del pittore che più di chiunque altro è l’emblema del confine sottile tra follia e genio artistico, in un tripudio estetizzante di musiche, frenesie visive e riflessi solari che tenta di riprodurre quella pittura a cavallo tra il reale e il sovrannaturale, come la definì Aurier nella celebre prima recensione positiva ricevuta da Van Gogh. Trovando pace solo nei momenti in cui il pittore dipinge, e attaccandosi alle tele, perché quando dipinge, dice Van Gogh/Dafoe, “smetto di pensare.”

At Eternity’s Gate, però, si ferma sulla superficie: tanto dei quadri, quanto del suo autore, e dei suoi tormenti.
Il risultato, oltre che vagamente didascalico e decisamente estetizzante, è quello di un film che ha il retrogusto amaro di un omaggio vagamente parassitario, ben rappresentato dalla scena finale: quella in cui le tele di Van Gogh circondano la sua bara scoperchiata, riuscendo finalmente a trovare l’interesse di quegli acquirenti che, in vita, lo avevano snobbato.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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