Underwater: recensione dell'horror sottomarino con Kristen Stewart

23 gennaio 2020
3.5 di 5
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Un teso e divertente Alien subacqueo, con chiare influenze lovecraftiane, che guarda con orgoglio ai B-Movies degli anni Ottanta e Novanta.

Underwater: recensione dell'horror sottomarino con Kristen Stewart

Il cinema di genere è una cosa seria. I B-movie, sono una cosa seria. Tanto seria che è davvero un peccato che, negli ultimi anni, troppe volte si sia voluto ammantare questi film di quelle patinature, quelle esagerazioni, quelle ambizioni visive e narrative da blockbuster. Film che invece, per loro natura, dovrebbero rimanere ruvidi, imperfetti, opachi.
Per fortuna qualcuno, ogni tanto, si ricorda che la serie B deve fare la serie B, che in quello sta la sua forza e la sua dignità, e allora prova a fare quella cosa lì, in quel modo lì; anche all'interno di un contesto produttivo dove, con tutta evidenza, si tira da un'altra parte.
Quel qualcuno, in questo caso, è William Eubank, regista di Underwater. Ma anche Brian Duffield, autore della sceneggiatura e del soggetto.

Leggerete ovunque, o sentirete dire da chiunque, che questo Underwater è un clone di Alien ambientato nelle profondità oceaniche invece che in quelle spaziali. Che il film di Scott sia stato un modello, è innegabile: nella caratterizzazione dei personaggi; nell'estetica; in certe inquadrature quasi ricalcate; nella trama e nei suoi dettagli, nelle armature subacquee e nelle capsule di salvataggio.
La Norah di Kristen Stewart è chiaramente una Ripley del mondo sommerso, con tanto di slip ridotti e a vita bassa: ma, saranno contente di saperlo le paladine del MeToo, non c'è nemmeno una ripresa che si soffermi per un decimo di secondo di troppo sul posteriore dell'attrice, e nemmeno lontanamente un accenno di morbosità nel costringerla in indumenti intimi in alcune scene.

E però, non c'è solo Alien, in Underwater. C'è magari un po' di Creatura degli abissi, e più di un riferimento a Atmosfera zero, e in generale una serie di ammiccamenti a quei film degli anni Ottanta (e magari anche Novanta) dove si faceva il genere e lo si faceva ancora con spirito artigiano, senza stare a darsi troppe arie, o a volerla menare eccessivamente coi sottotesti.
Poi certo, qui si parla di trivelle, e di fondale marino violentato: ma è trama, non certo messaggio. In Alien, vi importa davvero di come si comporti la Compagnia, o della lotta di Ripley contro lo xenomorfo?

Eubank gestisce bene tutti questi riferimenti, e regala una forma compiuta e personale al suo Underwater, che poteva diventare un Frankenstein sproporzionato ma che, alla fine, ha pure un suo equilibrio non male.
Gestisce bene i suoi personaggi, un'azione senza tregua e in continuo divenire, declinando con intelligenza un'estetica chiaramente derivativa dei found footage, più ripulita ma senza mai essere patinata. Anzi, una delle cose belle di Underwater è che a volte non è solo il buio, ma sono l'opacità dell'acqua, i residui che vi galleggiano, delle volute sfocature a rendere inconoscibile e misterioso l'ambiente che circonda i protagonisti.

E poi ci sono i mostri. Che anche quelli, almeno fino a un certo punto, e per fortuna, si vedono poco e male, che sono poco più che ombre, per poi rivelarsi come degli Abe (il protagonista della serie di videogame Oddworld) reinterpretati da un incubo lovecraftiano. E lovecraftiana, pienamente, è la creatura dalla quale questi Abe sono nati, una vera trasposizione oceanica di Chtulhu.
Forse, nelle fasi conclusive, Underwater esagera un po'. Perde quel suo essere genuinamente ruspante osando troppo. Ma glielo si perdona: anche e soprattutto nel nome di un finale che, vivaddio, ha il coraggio di andare controcorrente e di avere la sua buona dose di cupezza.
Come gli si perdona qualche primo piano di troppo alla platinata Stewart, come già era accaduto a Benedict Andrews in Seberg. Un po' perché sono comprensibili; e poi perché, almeno qui, quelle inquadrature non sono ancore di salvezza. 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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