Un sogno chiamato Florida: la recensione del film con Willem Dafoe

19 marzo 2018
3.5 di 5
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Un ritratto incantevole dell'infanzia in uno slum da 35 dollari a notte al confine col paese delle meraviglie.

Un sogno chiamato Florida: la recensione del film con Willem Dafoe

Venghino signori venghino, venghino nella luce aranciata di Orlando, in Florida, a due passi, anzi a uno sputo, da Disney World, fabbrica delle meraviglie per grandi e piccini e sogno americano tascabile da afferrare per la coda magari con un cono gelato in mano e una lattina di orange juice formato maxi.
Venghino in un motel color lilla abbellito da una mini-piscina dove maggiorate non più in erba trangugiano alcool nonostante il divieto da parte della direzione.
Venghino in un alveare a due piani chiamato Magic Castle che di magico ha poco o niente, ad eccezione degli sconti settimanali e degli sporadici furgoncini che distribuiscono gratuitamente waffles.
Venghino, infine, signori spettatori e signori WASP, nel poco esplorato universo dei cosiddetti "hidden homeless", i senzatetto nascosti che sono un prodotto della crisi economica del 2008 e che ogni giorno si arrangiano, a botte di "lavoretti", "furtarelli" e resilienza, per poter tirare avanti e non precipitare nella disperazione.

Come ce li racconta bene questi outcast Sean Baker, senza mai spiarli dal buco della serratura né analizzarli al microscopio quasi fossero cellule in provetta.  E con quale rispetto li osserva e con quanta compassione li fa risplendere, soffermandosi soprattutto sugli "esemplari" di giovanissima età. Ammettiamolo: il suo Un sogno chiamato Florida è uno dei migliori film sull'infanzia di sempre, un film fatto da un adulto, certo, ma un film ad "altezza bambino": tecnicamente (perché la macchina da presa dista da terra poco più di un metro e venti) e metaforicamente, dal momento che il regista è quasi sempre con la sua impertinente Monee (Brooklynn Prince) e con i suoi amichetti Jancey e Scooty, e con loro bighellona fra le insegne, i bar a forma di cup cake, i muri da scavalcare, i palazzi abbandonati da incendiare. E parla e agisce anche come parlano e agiscono loro, visto che il suo stile diventa mosso quando li sorprende in momenti di vivacità per poi rallentare e sfiorare la monotonia in accordo con il tempo della noia e della stasi.
 

Anche se la condizione in cui versa la sua piccola umanità è lo specchio del fallimento del capitalismo, ostentato nella sua dimensione più kitsch e grottesca, i suoi personaggi hanno un che di universale, perché in loro si intravedono i piccoli uomini e le piccole donne de "La guerra dei bottoni", "It""Le avventure di Huclkeberry Finn", e le loro caratteristiche sono quelle dei bambini di ogni luogo e di ogni tempo: la libertà, la determinazione, la gioia e il gioco come balsamo che lenisce il dolore. E l'immaginazione. Già, più di ogni altra cosa l'immaginazione, la fantasia, che nel film trasforma lo slum da 35 dollari a notte in un Oz comprensivo di streghe (gli assistenti sociali) e di magnanimi compagni d'avventura (il manager Bobby di un magnifico Willem Dafoe, padre riluttante ora dolce ora scostante).

Oltre ai bambini, che ci guardano con gli occhi di chi sta crescendo troppo in fretta e che hanno la dignità dei loro "fratellini" del nostro neorealismo, Un sogno chiamato Florida è un film di donne, donne sbagliate ma forti, donne senza boyfriend ma che ancora riescono a ridere, donne che sono madri imperfette, infantili ma tanto affettuose, e che, perfino quando fanno cose orribili, sono insostituibili, e questo Baker lo sa e ci tiene a dirlo, ed ecco perché il rapporto fra Halley dai capelli rosa e verdi (Bria Vinaite) e la sua bimba che parla come Carter di South Park è davvero l'ombelico del film, il suo grumo di "pietas", quell'albero caduto ma che ancora può crescere che la giovanissima protagonista della storia preferisce a tutti gli altri.

Non è mai furbo, Un sogno chiamato Florida, nemmeno per un istante. Non si appoggia mai al melodramma, non si affida al pathos della musica né fa la morale o riscatta chi non merita di essere riscattato. Eppure a volte si affeziona troppo ai suoi personaggi, e si incanta a guardarli e li filma e li "rifilma" pur di non lasciarli andare. Pur di non perdersi nulla. E così capita che diventi ripetitivo, e frammentario, episodico, in particolare nella prima parte. Ma non è la vita stessa, in fondo, a essere a volte poco fluida? E cosa c'è di più ripetitivo di una torrida estate in un angolo fin troppo stretto e squallido di mondo che confina con il paese delle meraviglie?
Niente, tanto più che in questa terra di confine abbiamo trovato anche straordinari attori non professionisti, che ancora una volta ci hanno fatto pensare agli eroi, adulti o in miniatura, di De Sica e Rossellini.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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