Tre manifesti a Ebbing, Missouri: recensione del film con Frances McDormand in concorso al Festival di Venezia 2017

04 settembre 2017
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Dopo In bruges e 7 psicopatici, Martin McDonagh firma il suo film più bello.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri: recensione del film con Frances McDormand in concorso al Festival di Venezia 2017

I più attenti l'avevano già capito con In Bruges, e anche col sottovalutato 7 psicopatici, che Martin McDonagh aveva stoffa e talento per fare il regista ad altissimi livelli, lui che che era già considerato uno dei maggiori commediografi viventi.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri - che è bello fin dal titolo, e dal manifesto diffuso mesi prima il debutto del film sugli schermi del Festival di Venezia - è la consacrazione sua e la conferma di queste considerazioni.

Com'è giusto che sia, considerato da dove viene il suo autore, Tre manifesti è un film che nasce sulla base di una sceneggiatura solidissima: tanto per l'intreccio che mescola commedia nera, neo-noir e western contemporaneo con sfacciata agilità, quanto per i dialoghi che sono secchi, divertentissimi, pieni di d'insulti e di sarcasmo ma senza l'ombra di inutili tarantinismi. Come non ha nulla di coeaniano, ma è estremamente personale, il giocare sottile del film con l'assurdo e il paradossale.
E però McDonagh è uno che sa sempre molto bene dove mettere la macchina da presa e come muoverla; uno che ha un gran bel gusto per l'inquadratura ma non si perde in inutili svolazzi estetici e retorici.
Come se questo non bastasse, è anche uno che sa dirigere benissimo i suoi attori: e qui Frances McDormand, Woody Harrelson e Sam Rockwell (ma anche tutti gli altri) sono pressoché perfetti.

Potrebbe bastare, perché in tutta onestà non si sa bene cos'altro si possa chiedere a un film, prima di ogni altra cosa, se non raccontare una bella storia e a raccontarla molto bene.
E invece Tre manifesti è ancora qualcosa di più: è un film che non tira mai in ballo esplicitamente questioni "alte", che rimane attaccato con orgoglio alle dinamiche dei generi e ai loro codici, ma che è anche capace di evocare per struttura e personaggi gli archetipi più incisivi della tragedia greca senza scimmiottarli, e che riesce a essere intensamente e dolorosamente politico senza mai dare l'impressione di volerlo essere, o di volerlo sbandierare.

Una madre in cerca di giustizia, o di vendetta, per la morte atroce di una figlia; uno sceriffo malato; i suoi assistenti razzisti e bifolchi; un mondo violento e indifferente, ignorante; odio che alimenta altro odio, violenza che si somma alla violenza. Fino a quando un gesto estremo non apre uno spiraglio alla calma e alla compassione, non versa una goccia d'amore in quel mare scuro e profondo fatto di cattiveria riuscendo - forse - a dare la stura a un processo inverso. Perché, se il male è contagioso, può esserlo anche il bene.
Ma attenzione, perché McDonagh non è tipo da buonismi zuccherosi, e rimane ruvido e cinico fino alla fine: una fine che è aperta, che è tutta da vedere.

Ebbing, Missouri, è un concentrato degli Stati Uniti d'America, e del mondo in cui viviamo. Un mondo sporco e cattivo, dove il male accade senza motivo, o per abitudine, o per pigrizia, o per vendetta. Un mondo difficile, da affrontare solo se si hanno le spalle abbastanza larghe per farlo, ma nel quale la speranza non è ancora andata perduta, sebbene siano necessari sacrifici estremi e dolorosi, per riaccenderne la flebile fiamma.
Accenderla e tenerla viva - dice McDonagh tenendoci attaccati allo schermo, facendoci ridere, appassionare e commuovere - sta ai personaggi; sta a noi.
Chissà se ce la faremo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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