The Disaster Artist: la recensione del film di James Franco sulla lavorazione del film più brutto di sempre
Esilarante ma anche empatico racconto di un sognatore.
Lontano dalle amate e polverose disperazioni di Faulkner, James Franco ha trovato l'ispirazione per dirigere il suo miglior film. Per farlo si è spostato di pochi metri, geograficamente, dalla sua Los Angeles, e ancora meno dalle colline dell’immaginario hollywoodiano che hanno sedotto il The Disaster Artist del titolo. Siamo di fronte a un transfer freudiano di Franco, almeno delle sue paure di non avere il talento necessario a sostenere la sua bulimia creativa.
Il film racconta il dietro le quinte della lavorazione di The Room (2003), da Entertainment Weekly definito Il quarto potere dei brutti film, ma diventato anche un culto per gli amanti dei film di mezzanotte, diretto da un misterioso novello Ed Wood, di nome Tommy Wiseau. Il punto di vista è quello di Greg Sestero (interpretato da Dave Franco, il fratello di James) giovane aspirante attore col terrore del palcoscenico diventato stretto collaboratore e amico del folle personaggio, con alterne fortune. Wiseau è un incrocio fra Manuel Agnelli e il professor Piton di Harry Potter, è pieno di soldi e di un accento improbabile, anche se sostiene contro ogni evidenza di “venire da New Orleans”. A lui la faccia tosta non manca, sembra seguire ostinatamente una sua via verso la creazione artistica, non considerando minimamente né i commenti di chi ha intorno, né la realtà. Il sogno del cinema lo pervade così tanto da coinvolgere il suo amico nel proposito di realizzare da soli il loro sogno, il loro film, visto che gli altri non glielo fanno fare.
Come nell’Ed Wood di Burton, Franco si getta con empatia nel mondo al contrario di un uomo totalmente privo di talento, ma con una passione invidiabile e contagiosa. In epoca di politici e tuttologi che si dicono prima di tutto “onesti”, tanto la competenza è sopravvalutata, The Disaster Artist si affaccia sul precipizio di ogni artista, sulla soglia dell’incubo con cui teme di svegliarsi dal sogno hollywoodiano. Se facessi schifo?
Franco ha certo voglia di divertire con questo personaggio ai limiti dell’incredibile, ma lo fa con delicatezza e vicinanza; come dire, ride sempre meno di lui e sempre più con lui, come tutta la platea alla première del tragico film, pronta a convertire le prime risatine in un tripudio di applausi, accolti prima con rabbia e poi con gioia da Wiseau. In fondo lui cercava la grandezza, l’amore degli altri, poco importa ci sia arrivato contromano. C’è della grandezza in lui, come in chi sogna con ambizione sincera, così come c’è della mestizia in una società pronta a deliziarsi per la bruttezza, affibbiando etichette come “di culto” o “altpuntoqualcosa” senza troppo pensarci.
Alla fine Franco ci mostra delle scene del film originale, accanto a quelle girate da lui, che risultano praticamente identiche. Come dire, io ho solo copiato, è lui il genio del brutto. Tommy Wiseau rimane ancora un personaggio misterioso, poco si sa di lui, ma qualcosa in più si sa del bisogno di noi spettatori di qualcosa di diverso, del piacere dell’eccentricità di un folle visionario - reso mirabilmente dal miglior Franco anche in veste di attore -,unico a non vedere quello che tutti gli altri vedono. Ma se fosse il contrario?
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito