Stars at Noon, la recensione del film di Claire Denis in concorso al Festival di Cannes 2022
Tornata dallo spazio, la regista francese ritrova le abituali atmosfere esotiche (qui un Nicaragua ricreato a Panama) e le altrettanto abituali dinamiche e le tensioni delle relazioni umane. Ritrova, anche un intellettualismo altezzoso e un po' risibile, che penalizza gravemente questa storia di spionaggio e di amore.
Dopo essere andata nello spazio con Robert Pattinson in High Life, Claire Denis torna sulla Terra, torna alle località esotiche che le sono tanto care, e a raccontare dinamiche e tensioni delle relazioni umane e sentimentali.
Questa volta, in Stars at Noon, sceglie il Nicaragua, e una storia - tratta da un romanzo di Denis Johnson del 1986 - che mescola una torbida e oscura vicenda spionistica con un’ambigua e sudatissima vicenda di sesso e amore.
Il Nicaragua, dicevamo. Che nel romanzo era quello esplosivo della rivoluzione sandinista del 1984, e che la Denis ha invece ambientato in uno strano e indifinibile presente pandemico, con tanto di mascherine e tamponi, ma anche bandierine sandiniste, alla vigilia di fantomatiche elezioni.
Questa vaghezza ucronica è una prima spia di come (e quanto…) Claire Denis abbia voluto girare un film che, se nelle linee generali, generalissime della trama evoca atmosfere alla Graham Greene, è volutamente e insistentemente aereo, reticente, quasi infastidito quando arrivano quei momenti che sono indispensabili e che servono a dare un minimo di coordinate concrete allo spettatore su quel che sta guardando. Tutto nel nome di uno sbandierato e altezzoso intellettualismo arty.
Margaret Qualley, che la regista vuole spesso e volentieri nuda e impegnata in attività ricreative di stampo erotico-sessuale, sostiene di essere una giornalista americana, ma non ha alcun tesserino che ne certifichi l’attività, e quando chiama su Skype il direttore per cui pensa di lavorare, questo la invita a non farsi più risentire.
Quel che sappiamo di lei è che è senza passaporto, requisito chissà da chi, e chissà perché è una che non si fa troppi scrupoli ad andare a letto con la gente per favori e per danaro (un anziano vice-ministro, un brusco subteniente dell’esercito).
Anche con il misterioso faccendiere inglese interpretato da Joe Alwyn a letto ci va (anche) per soldi: almeno la prima volta, perché poi i due, tra decine di rum e di birre, spostamenti e aride e risibili linee di dialogo che si vorrebbero intellettualistiche e nouvellevaguiane, finiscono rapidamente per essere ossessionati l’uno dall’altra. Oltre che nei guai.
Perché, non si bene perché, i misteriosi affari (a fin di bene? per aiutare la transizione verso la democrazia? per interesse?) dell’inglese irritano qualcuno che mira a mantenere lo status quo, forse pure la CIA, e insomma rischia la pelle, e lei con lui, e il loro problema diventa lasciare il paese senza avere soldi né documento.
Sintetizzata così, in poche righe, questa trama può essere in effetti anche vagamente intrigante. Ma, dilatata nelle due ore e quindici minuti che Claire Denis usa per raccontarla, e dissolta nei modi così arrogantemente e ostentatamente “d’autore” che vengono usati, che mirano a far smarrire lo spettatore e finendo invece per farlo annoiare, rimane un oggetto alieno, ambiguo, distante. Senza che la forza del sentimento o dei personaggi possano rimpire i vuoti del racconto, e quelli dell’empatia.
Ma altro che empatia: quello della povera Qualley, che pure da attrice fa il suo, donandosi generosamente al film non solo nel centimetri di pelle, è un ruolo che sprizza antipatia da tutti i pori. Così sfacciatamente randagia, alcolizzata, ispida, capricciosa. Lui, l’inglese di Alwyn, non è molto da meno, sorta di figura molle e ombrosa a metà strada tra idealismo e opportunismo.
E quando tutto si conclude, e si conclude nel modo più ovvio e facilmente mélo, dopo una delle poche cose che del film si salvano, ovvero il cammeo di Benny Safdie nei panni di un agente CIA (c’era stato anche quello di John C. Reilly direttore di giornale) delle sorti dei protagonisti interessa poco. Molto di più che si accendano finalmente le luci della sala.
Magra consolazione, la colonna sonora del film, firmata dai Tindersticks, è strepitosa.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival