Spider-Man: No Way Home, la recensione: Peter diventa grande e abbraccia l'MCU
Grande, spettacolare, complesso (pure troppo), ambizioso. Un film che chiude una trilogia, un ventennio di Spider-Man, una stagione della vita di Peter e prepara l'ingresso definitivo dentro un universo più cupo e magniloquente, non necessariamente migliore. La recensione di Spider-Man: No Way Home di Federico Gironi.
Si parte. Si parte col botto, e con quel che i trailer visti finora ci avevano già raccontato: l'identità di Spider-Man rivelata al mondo, le difficoltà di Peter e soci di reggere la situazione (non li ammettono nemmeno al M.I.T., poverini, ci sarei rimasto male anche io), la richiesta di un incantesimo al Dottor Strange per far dimenticare al mondo la sua identità, le continue interruzioni mentre il povero Strange armeggia con le rune ("possiamo escludere MJ? e Ned? e zia May?": chissà fosse stato romano cosa avrebbe detto a Peter, il buon Dottore).
Fatto sta che l'esperimento va a monte, nessuno si scorda niente ma nel frattempo i varchi dimensionali si sono aperti, e dal multiverso vengon fuori cattivi a iosa.
Se quindi uno dei temi di Spider-Man: No Way Home è la difficile gestione della notorietà da parte di Peter (con un destino segnato da un doloroso anonimato), a livello macro il film racconta ovviamente la storia dell'Uomo Ragno contro questa pletora di cattivi: da rispedire nel loro universo d'appartenenza, ma non prima di aver fatto un certo qual intervento.
In un celebre e coattissimo film degli anni Ottanta, Cobra, il motto di Sylvester Stallone, alias il tenente Marion Cobretti, era: "voi siete il male, e io sono la cura". Da un certo punto di vista, è lo stesso del Peter di Tom Holland in questo film.
Ma se la cura di Cobretti prevedeva l'obitorio, più che l'ospedale, quel che qui Peter vuole fare, influenzato dalle attitudini umanitarie di zia May, è restituire l'umanità a quei terribili villain, prima di rimandarli a casa loro. Ovvio che le cose non saranno così facili, e ovvio che al Peter di Holland verrà data una mano - più di una - da alcuni inattesi alleati.
La cura, comunque, è un altro dei temi sottotraccia (ma nemmeno tanto) di questo film che chiude una stagione e si prepara a prepararne un'altra: cura in senso medico, ma anche cura come accudimento e protezione. Responsabilità (grande, come i grandi poteri, ovviamente).
Qualcosa cui il Peter di Holland arriverà certo grazie a May, ma anche dopo un grosso trauma che lo allineerà idealmente con gli altri universi ragneschi: il trauma del lutto. Uno nuovo, dopo quello per Tony Stark.
Peter diventa grande, insomma. Fine dei giochi. Endgame.
Rimane il fatto che in Spider-Man: No Way Home la moltiplicazione degli universi e dei personaggi aumenta la spettacolarità, anche se a volte anche la confusione (visiva più che narrativa). E che in questo film Jon Watts, che pure si diverte in spericolate acrobazie visive, sia costretto a mettere insieme tante identità che non sempre si amalgamano alla perfezione.
La questione è semplice: No Way Home è un film al tempo stesso di chiusura (di una trilogia) e di passaggio (verso il MCU). Un film le cui ardite e complesse traiettorie narrative sono dettate, letteralmente, da esigenze economiche e produttive. E c'è da dire che Chris McKenna e Erik Sommers, sceneggiatori del film, sembrano essersi divertiti abbastanza nel doversi barcamenare tra paletti tanto stretti che, però, permettevano loro anche di compiere scelte spericolate.
Per dirla in altri termini, No Way Home deve amalgamare lo Spider-Man di Holland e Watts così come lo abbiamo conosciuto nei due film precedenti, quelli targati Sony, e quindi lo Spider-Man più scanzonato che flirta con la commedia a più riprese e con successo, dalla leggerezza agile e aerea, spensierata, con le esigenze di un mondo cinematografico Marvel che impone momenti di gravitas e sdilinquimenti sentimentali dall'elevatissimo peso specifico.
E, per passare da un registro a un altro, No Way Home si concede contorsioni non da poco: tanto che non sempre proprio tutto torna come dovrebbe.
Quella che però, chiaramente, è la caratteristica principale del film è l'aver fatto di tutte queste esigenze l'opportunità per il più sfacciato, disinibito, scialacquato e generoso dei fan service.
In vista del dissolvimento del Sony's Spider-Man Universe nel Marvel Cinematic Universe, oltre ad abbracciare toni ed esigenze della nuova casa di Spider-Man si è colta l'occasione per celebrare (in maniera quasi funebre, di quei funerali che sono una festa più che un piagnisteo) quello che Spider-Man è stato finora, tirando le fila su un ventennio ragnesco sul quale sta per calare il sipario, con un'operazione che in qualche modo possiamo mettere in parallelo con quella di Ghostbusters: Legacy.
Lì, però, la sincerità dei sentimenti di Reitman e del suo cast e la vera commozione che veniva tirata in ballo scongiurava qualsiasi sospetto di necrofilia; qui l'operazione è talmente pianificata che magari non è proprio necrofila, ma è perlomeno sintetica, con corde - anzi, ragnatele - che son ben visibili e ordite ad arte per muovere il coinvolgimento e la commozione della fan base con un eccesso di consapevolezza. D'altronde, si sa, Ghostbusters è roba da boomer (lo dice pure il box office), mentre questa cosa qui, Spider-Man (o Men) e il suo trionfale e definitivo ingresso nell'MCU sono invece pane per i denti del pubblico di oggi. Piaccia o meno.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival