Slam - Tutto per una ragazza: recensione del film dal romanzo di Nick Hornby
Andrea Molaioli racconta con garbo e originalità l'adolescenza e celebra la libertà degli skater
Quanto sembrano e sono vicini a chi legge e anche a chi va al cinema i personaggi inventati da Nick Hornby: il nord-londinese Will di "Un ragazzo" che può permettersi di non lavorare e ama paragonare gli uomini a delle isole, il Rob Fleming di "Alta fedeltà" che vive di classifiche e di interrogativi sulle donne e per chiunque si confonde con John Cusack, lo sgangherato gruppo di aspiranti sucidi di "Non buttiamoci" giù e la Jenny Miller uscita dalla sceneggiatura di An Education seguita dalla Ellis Lacey del copione di Brooklyn. E’ facile simpatizzare con questa umanità che riesce quasi sempre a guardarsi dal di fuori e che fortunatamente si autoassolve grazie all’ironia. E che soprattutto si assume dei rischi, proprio come il Sam del libro "Tutto per una ragazza" e la sua versione in carne ed ossa che Andrea Molaioli ha reso protagonista di Slam - Tutto per una ragazza.
E però quest’ultimo personaggio, che pure si nutre della filosofia e dell’autobiografia dello skater Tony Hawk (dunque di un'altra persona di lingua inglese) a suo modo è anche un outsider, perché il regista de La ragazza del lago lo ha trasformato - insieme a Francesco Bruni e Ludovica Rampoldi - in un ragazzo italiano, un sedicenne romano che sogna sì la California come i Dik Dik, ma che sembra ben radicato in un contesto che poi è il tessuto connettivo di una storia non sempre facile da seguire per via di una componente onirico-surreale sottoforma di flashforward: un andirivieni plausibile fra le pagine di un romanzo ma che ha confuso un po' chi il film l'ha visto al Torino Film Festival. Eppure, a lasciarsi andare al racconto, o magari soltanto a ripensarci, e soprattutto presa la giusta distanza da quel Piuma che per analogia di argomento rischia di essere il suo principale avversario, Slam una sua compattezza ce l’ha, ed è lo sguardo libero di Samuele-Ludovico Tersigni, che su una tavola non da surf ma con le ruote percorre spazi urbani ed esistenziali e attraversa, riflessivo e più o meno tranquillo, l’adolescenza, età paradisiaca e insieme infernale che Molaioli ci tiene a descrivere non confondendola mai con il tempo della svogliatezza e l’assenza di una realizzazione personale né con il prodromo di un iperattivismo e di una voglia di riuscire tipici della fase adulta.
Quando aveva gli stessi anni del suo protagonista, il regista già coltivava il sogno del cinema, quindi è sbagliato rintracciare nel film forti o deboli autobiografismi, anche perché il tempo di Slam è il presente, un vivere alla giornata (ma non con incoscienza) che investe perfino il mondo dei grandi, esplorato forse non con la stessa attenzione e sensibilità e lasciato a volte a se stesso, nonostante l’ottima performance di Jasmine Trinca e le irresistibili poche scene in cui appare Luca Marinelli. Sono i ragazzi,insomma, la forza del film, e lo è il loro viaggio, a suon di trick, verso l’assunzione della più importante fra le responsabilità: diventare genitori, possibilmente migliori di quelli avuti in sorte, dai quali però si è imparato a far fronte agli imprevisti, ad abbracciare la fragilità invece di improvvisarsi superuomini e ad essere accoglienti più che giudicanti. In questo senso, più incisiva è la rappresentazione della mamma e del papà di Sam, mentre è nei familiari di Alice (e soltanto in loro), che Slam perde la sua bella connotazione internazionale, nonostante appartenga a un sistema solare diverso da quello in cui orbitano tanti contemporanei romanzi di formazione ambientati o negli altoborghesi quartieri della parte nord della capitale o nelle periferie, luoghi sovente associati alla disillusione e alla rabbia.
Ma ogni cornice richiede verità, e la Roma borghese in fondo è così e per Moliaoli può diventare meno sonnacchiosa grazie a una versione riveduta dell'umorismo british e quindi coesistere felicemente con le zone dei parchi degli skater dove Sam cerca in ogni modo di prodursi in un 900 (due rotazioni e mezzo). Ci riesce? Non sta a noi dirlo. E il regista, con la sua storia, prende in qualche modo il volo? Osa davvero? Non in ogni momento. Piuttosto procede tranquillo, tenendosi fortunatamente lontano dal buonismo, ma non sporcandosi troppo le mani con i dilemmi interiori e galleggiando placidamente nel mare calmo di una commedia in cui l'elemento drammatico viene tenuto a bada, perché tanto, poi, pur fra le piccole rivoluzioni sintattico-narrative, il buonsenso prevale e la vita si aggiusta. Ma anche questa è una scelta di libertà: la libertà dei surfisti dell'asfalto, che possono andare ovunque: su una strada liscia come sulle pareti di una piscina vuota, senza prendere lezioni da nessuno e decidendo di rischiare solo quando lo ritengono opportuno.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali