Senza lasciare traccia: recensione del film con Michele Riondino

14 aprile 2016
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Un film orgogliosamente indipendente sulla rabbia e il desiderio di fare i conti con il passato.

Senza lasciare traccia: recensione del film con Michele Riondino

Non è pretenzioso, citazionista, comodo, generazionale e alla moda il film d’esordio del cagliaritano Gianclaudio Cappai, che da orgoglioso rappresentante di un cinema autoprodotto e autodistribuito unisce e mescola i generi per poi colpire, come un pugno nello stomaco, parlando di uno dei grandi rimossi dell’oggi: la malattia - e non una malattia qualunque. Comincia del resto con una TAC Senza lasciare traccia: con un corpo attaccato e consumato da un un cancro definito a ragione "un intruso”. E' il corpo di Bruno, un giovane insegnante che sa di avere ancora poco tempo da vivere e che deve riparare a un danno subito in passato. No, non ci troviamo esattamente in un revenge-movie, almeno non di quelli con Liam Neeson, Sean Penn o Jason Statham, se non altro perché qui il protagonista non è "pompato" né intenzionato a rompere braccia e gambe. Però non siamo poi così lontani dalla tipologia, anche se l’approccio non è "fracassone" ma introspettivo e la sofferenza interiore più acuta del dolore fisico.

Con la scusa di accompagnare la moglie in un viaggio di lavoro, il nostro protagonista torna infatti in un'indefinita località di provincia del Nord Italia per rifarsi di una violenza subita durante l’infanzia. Invece di incedere fieramente come un anti-eroe, si trascina non fra le strade di una metropoli ma nelle stanze di una vecchia casa di campagna, dove incontra (non per caso), il proprietario di di una fornace e sua figlia. Come lui, anche loro sono dei vinti, dei perdenti, ed è questo uno degli elementi di rottura di un film che ci restituisce un’umanità rassegnata e rancorosa: perché in fondo è soprattutto di una rabbia impotente che si parla, una furia repressa che avvelena lentamente l’esistenza fino a guastare definitivamente la salute. Bruno la placa agendo quasi a rallentatore e con cieca determinazione, in un tempo che sembra dilatato ma che Cappai carica di tensione, rendendo palpabile lo sforzo e la fatica nella lotta e affidandosi a cambi sempre più rapidi di inquadratura. C'è azione in questa sequenze, ma è quasi muta, condita di parole scarne e degli sguardi intesi e dolenti di Michele Riondino.

E' bravissimo il giovane Montalbano a lavorare sempre di sottrazione e a trasmettere l'ambiguità e il bisogno disperato di catarsi del suo personaggio, che non chiama all'identificazione come i traumatizzati protagonisti di tanti thriller psicanalitici, innescando invece nello spettatore una reazione altalenante, un misto di profonda compassione e di distacco. A fuoco anche Valentina Cervi (anima dolce e materna del racconto), l'aspra Elena Radonicich e quel Vitaliano Trevisan che tanto avevamo apprezzato in Primo amore di Matteo Garrone.

Gianclaudio Cappai tratteggia appena i loro personaggi, che però si definiscono potentemente anche attraverso poche emozioni. E' un gioco del togliere che funziona, ma solo fino a un certo punto, per esempio non nel finale sospeso e aperto. In una simile vaghezza possiamo anche leggere la negazione di un risarcimento morale per lo già sfortunato protagonista - che pure cerca nel fuoco una via per rinascere - o il desiderio da parte del regista di non giudicare nessuno, ma l'impressione è che Bruno & Co. non rimangano prigionieri solo dei loro mali, ma anche di una sceneggiatura che ha qualche incertezza. Ciò non toglie valore a Senza lasciare traccia, che è comunque un atto di coraggio e un'opera felicemente insolita.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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