Sbatti il mostro in prima pagina: la recensione del film di Marco Bellocchio
Un grandissimo Gian Maria Volonté protagonista di un film che ragionava - in un momento storico molto particolare - sul ruolo della stampa e sulle sue connivenze con i poteri più occulti.
La prima sequenza, documentaria, di Sbatti il mostro in prima pagina mostra un comizio, organizzato dalle forze politiche che allora, nel 1972, intendevano parlare alla cosiddetta “maggioranza silenziosa”: ovvero a quella parte del paese borghese e lavoratrice che non si riconosceva nella politica degli opposti estremismi di quegli anni così turbolenti. A parlare sul palco, in un parco milanese, è un giovane Ignazio La Russa, allora nel MSI, che arringa la folla non solo sui pericoli del comunismo, ovvio, ma anche sulla necessità di superare le vecchie distinzioni tra fascismo e anti-fascismo.
Come attacco, funziona molto bene per far capire e dimostrare come il film di Marco Bellocchio, così profondamente calato dentro la realtà di quegli anni come gran parte del cinema italiano di allora, sia capace di riecheggiare in maniera più che comprensibile nel nostro presente.
Anche perché non è solo di politica che si parla, in questo film che all’inizio mostra anche i funerali di Giangiacomo Feltrinelli, morto come tutti sappiamo essere morto, gli scontri di piazza, una polizia dai modi spicci e brutali, e una Milano plumbea, dove l’aria che si respirava era pesantissima. Il grande tema del film, che alla politica è legato a doppio filo, allora come oggi, riguarda la stampa e la sua libertà. La costruzione di un’opinione pubblica in maniera legata o non legata agli interessi di questa o quell’altra parte politica.
Il mostro da sbattere in prima pagina è un giovane militante della sinistra extraparlamentare, che il mefistofelico caporedattore di un quotidiano milanese di destra conservatrice punto di riferimenti quella stessa maggioranza silenziosa cui si rivolgeva La Russa (che si chiama “Il Giornale”, come quello che Montanelli fonderà due anni dopo la realizzazione di questo film: ed è curioso che il direttore del quotidiano, che si intravede in un paio di scene, a Montanelli assomigli davvero), e il ricco imprenditore reazionario che lo controlla, scelgono come capro espiatorio per la violenza sessuale e l’uccisione di cui è stata vittima una quindicenne, figlia di un importante professionista. I motivi, ovviamente, sono di matrice politica, dato che le elezioni sono alle porte, e c’è bisogno di aizzare l’opinione pubblica - quella più ipocritamente perbenista - contro la sinistra.
Questo meccanismo è invece il mostro che sta dietro la prima pagina, racconta chiaramente Bellocchio, che qui è al suo quarto lungometraggio ed eredita il film da Sergio Donati, autore di soggetto e sceneggiatura originali, che Bellocchio rivedrà assieme a Goffredo Fofi, lasciando che Donati rielabori invece il suo copione in quello che poi diverrà Il mostro di Luigi Zampa.
Il mostro dietro non è tanto un volto, o un personaggio. Non è il Bizanti di Gian Maria Volonté, ma è il complesso di un meccanismo che si muove nell’ombra, e che unisce quelli che oggi chiameremmo “i poteri forti” (la stampa, il mondo imprenditoriale) con un sistema politico-giudiziario, nella logica di una conservazione repressiva che poi è quella che realmente ha condizionato il paese in un periodo storico complesso come quello degli anni Settanta.
Fuori da quel quadro storico - che, con i tanti riferimenti a tanti fatti reali citati esplicitamente e non, da Piazza Fontana a Feltrinelli passando per Pinelli e Milena Sutter, è fin troppo presente - rimangono comunque interessanti i discorsi portati avanti da Bellocchio e Fofi su un sistema mediatico che non mira a informare, quando a creare e orientare l'opinione pubblica, e che non esita a mentire spudoratamente per poterlo fare: specie oggi che viviamo l’era delle fake news e dei social network, che l’informazione la rendono virale e volatile allo stesso tempo.
Anche per questo, sono ancora oggi di grande efficacia le scene più note del film, quelle che si affidano a un Volonté tanto più efficace quanto più sottile: la “lezione di semiotica” che Bizanti impartisce al giovane giornalista cui poi affiderà, per poterlo manovrare, la copertura della storia dell’omicidio della ragazza, e lo sfogo schifato di fronte a una moglie che non ritiene superiore al lettore medio del suo giornale, e che non capisce la differenza enorme che esiste tra ciò che si dice (e si scrive) e ciò che si pensa davvero.
Questo tentativo - a tratti un po’ forzato - di giallo politico, a ben vedere, è più un film di Gian Maria Volonté (il cui personaggio può essere considerato una variazione sul tema di quello di Indagine su un cittadino, anche per la consapevolezza contraddittoria dell’amoralità dei suoi comportamenti) che uno di Marco Bellocchio, sebbene il regista piacentino riesca a tratti a far emergere chiara la sua visione e la sua personalità dietro la macchina da presa, con alcune scene in cui la sua tendenza simbolista e visionaria si fanno strada nella struttura abbastanza rigorosa della trama e della messa in scena. Certe riprese di Milano e soprattutto l’immagine finale, con il fluire dei rifiuti nel Naviglio di Milano mentre la voce fuori campo del prete che ha celebrato la messa funebre per la ragazza uccisa, alla presenza di tutti i principali attori della vicenda e dei sotterfugi che l’hanno caratterizzata, dice “La messa è finita andate in pace”, ne sono la testimonianza più potente ed eclatante.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival