Renegades - Commando d'assalto: recensione del film scritto e prodotto da Luc Besson

04 ottobre 2017
2.5 di 5
9

Una missione impossibile che profuma di cinema d'altri tempi, con una spolverata di patina spettacolare.

Renegades - Commando d'assalto: recensione del film scritto e prodotto da Luc Besson

Ci sono i Navy Seal, e in particolare un plotone che è uscito troppo rumorosamente da una missione segreta a Sarajevo ed è stato messo a riposo per un po' di giorni.
Poi c'è un vecchio villaggio yugoslavo sul fondo di un lago, perché quella prima era una valle ma i partigiani, alla fine della II Guerra Mondiale, fecero saltare una diga per annegare i tedeschi.
Insieme al villaggio, e ai tedeschi annegati, un carico d'oro, quell'oro che i nazisti portarono via da Parigi, assieme alle opere d'arte del Louvre e di altri musei, quando abbandonarono la città nel 1944.
E poi c'è una ragazza bosniaca, ovviamente belloccia, che sa di quel tesoro e sogna di recuperarlo per contribuire alla ricostruzione del suo paese (siamo pur sempre nel 1995), e che guarda caso ha iniziato una relazione proprio con una di quelle teste calde americane, così brave nelle attività subacquee.

C'è un po' di tutto, quindi, in Renegades - Commanto d'assalto, un film che porta evidente il marchio produttivo e narrativo di Luc Besson (che l'ha anche co-sceneggiato) più di quello del regista Steven Quale.
C'è, più di ogni altra cosa, quell'atmosfera un po' retrò e un po' cazzona, dove gli umori dell'alcool e gli odori della polvere da sparo si mescolano ad effluvi testosteronici, che riporta indietro nel tempo. §Non solo al cinema d'azione americano degli anni reaganiani, ma anche un po' più indietro: a quei film degli anni Settanta fatti di missioni impossibili portate avanti da un manipolo di scalcinati e scapestrati eroi, riletti però attraverso la lente dell'estetica e dell'etica dell'A-Team.

Poi certo, siccome le esigenze spettacolari del cinema di oggi son quelle che sono, ci vogliono anche una spolverata di sequenze d'azione in stile bellico, e ci vuole qualcosa di più ancora: la missione subacquea, fatta di una lunga fase preparativa (l'escamotage su come portare a galla l'oro, che è rimasto luccicante e radioso, a dispetto dei cinquant'anni passati sotto'acqua, mi ha ricordato una storia di Zio Paperone) e una convulsa fase realizzativa dove capita tutto ma proprio tutto quello che poteva e doveva capitare.

Più che un film d'azione, Renegades è un film di reazione. Perché tutto quello che accade accade per reazione - spesso e volentieri istintiva - a qualcos'altro, perché alla fine non contano le psicologie dei personaggi, dei simboli e del gruppo, ma solo quell'istanza che ognuno di loro, nel film, è chiamato a rappresentare.
E, tanto per fare un esempio, cosa poteva essere chiamato a rappresentare uno come J.K. Simmons in un film del genere? Ovviamente l'ammiraglio che abbaia ma non morde, più J. Jonah Jameson che Terence Fletcher, e che anzi alla fine rischia pure di farsi beccare con gli occhi lucidi.
Perché il lieto fine è scontato. I Seals saranno anche ruvide e simpatiche canaglie, ma in fondo hanno anche un cuore. Specie se si tratta di far contenta Sylvia Hoeks.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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