Quel che sapeva Maisie: recensione del film con Julianne Moore
Il caotico mondo dei grandi raccontato attraverso lo sguardo dolce di una bambina.
Pubblicato prima a puntate su una rivista letteraria e poi, nel 1897, in volume, "Quel che sapeva Maisie" non è certamente il primo romanzo di Henry James a essere tradotto in immagini.
A intuire il potenziale cinematografico della scrittura e delle trame dello scrittore americano sono stati, infatti, in molti: dalla Jane Campion di Ritratto di signora al James Ivory de I bostoniani e dal Peter Bogdanovich di Daisy Miller all’Alejandro Aménabar di The Others, che è un libero adattamento del bellissimo "Giro di Vite".
Allo stesso modo di quest’ultimo, anzi più di quest’ultimo, il fim di Scott McGehee e David Siegel prende una strada autonoma rispetto all’opera originale, perché trasporta ai giorni attuali la melanconica odissea di una bambina di sei anni che, come la piccola Aria di Incompresa, si ritrova sballottata fra genitori incredibilmente indaffarati, tate diventate matrigne, patrigni occasionali, e maestre scolastiche.
In comune con il film di Asia Argento c’è anche la “questione” del punto di vista, che non è quello di un regista onniscente teso ad analizzare criticamente il problema famiglia disfunzionale né quello di una madre e un padre che si barcamenano fra il il tipico egoismo dell’individuo non pienamente realizzato e una modalità di amare istintiva, goffa e visibilmente imperfetta.
No, lo sguardo di Quel che sapeva Maisie sono gli occhi nocciola di Maisie, che captano anche il più insignificante segnale di disattenzione e frugano discorsi e volti alla disperata ricerca di un affetto quieto e di una presunta normalità.
Anche le scelte tecniche del film – prima fra tutte una macchina da presa ad altezza bambino – spingono in questa direzione, facendo sembrare le azioni dei grandi dei capricci senili e i loro viaggi di lavoro delle fughe incomprensibili.
Ma se anche Maisie non capisce fino in fondo il caos che le viene imposto dal bestiario dei grandi - a cui oppone l’ordinato zoo artificiale degli animali con cui gioca, noi abbiamo gli strumenti per farlo e la percezione di una stonatura la avvertiamo fin dalle prime scene, attenuata di tanto in tanto da una rappresentazione ironica dell’ambiente di cui fanno parte i genitori di Maisie: una New York fra l’alto-borghese, il fricchettone e il finto-intellettuale.
In questo contesto East Coast, si muove molto bene una Julianne Moore rara e preziosa, che dopo essersi lasciata alle spalle la celebrity culture della LA di Maps to the Stars, trova un personaggio meno freddo e calcolatore di Havana Segrand, ma ugualmente fragile e malato di egoscentrismo.
Il prodigio di Quel che sapeva Maisie, però, è Onata Aprile: senza la sua recitazione low key e la sua morbida passività la dolcezza del racconto di certo si attenuerebbe.
Abbiamo detto dolcezza, non indulgenza, perché, scena dopo scena, l'educato consiglio dei registi e degli sceneggiatori a non diventare genitori se non si è disposti a mettersi in secondo piano si fa sempre più chiaro. I bambini ci guardano, non dimentichiamolo mai.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali