Play Time - Tempo di divertimento: la recensione del capolavoro di Jacques Tati
Il film più estremo, ambizioso, teorico e sbalorditivo del comico francese, capace di apparire attualissimo a cinquant'anni di distanza. Play Time, come tutti gli altri lungometraggi diretti da Tati, è disponibile in streaming su Amazon Prime Video.
Prima ancora che sociologia e antropologia iniziassero a parlare di non luoghi, di città polifoniche o immaginate, c’era stato Jacques Tati.
Prima che si iniziasse a definire i concetti di massificazione, globalizzazione, virtulizzazione della società e della realtà, e a discuterli, su quei temi era arrivato Jacques Tati.
Prima della fantascienza distopica di un Brazil, e di quella asettica ed esistenziale degli ultimi anni, con film come Non lasciarmi, Equals, e molti altri ancora, c’era stato Play Time - Tempo di divertimento.
Play Time è la magnum opus di Tati, ambiziosissima e grandiosa, il film in cui aveva investito tutto - tutti i suoi soldi, tutta la sua teorizzazione sul cinema e sulla comicità - e che ha rischiato di mandarlo in bancarotta; è il capolavoro che ti lascia a bocca aperta per sguardo, inventiva, comicità, capacità di raccontare il presente e il futuro, e per un controllo e una consapevolezza della messa in scena totali e quasi sovrumane, e che non hanno nulla da invidiare a quelle del miglior Stanley Kubrick, tanto per citare un maniacale a caso.
Impostato e condotto come una composizione orchestrale, come una sinfonia dodecafonica, Play Time è un film dove lo spazio, il tempo e il suono vengono usati con una perizia e una precisione abissali, e del quale è impossibile cogliere nel corso di una sola visione la quantità di dettagli, curati ossessivamente, che costellano tutti i piani, gli angoli e i luoghi delle inquadrature: basti vedere come si usa la profondità di campo, e ciò che Tati fa lì accadere, nel fondo dell'inquadratura; che lascia a bocca aperta per come sia capace di utilizzare il sonoro, i silenzi, i rumori, elevandoli a veri e propri attori della storia.
Un film assurdo e geniale, senza una vera trama, senza un protagonista (qui il Monsieur Hulot di Tati vale tanto tutto sommato quanto qualsiasi altro personaggio), felicemente intriso di spirito surrealista e dadaista e perfino rapportabile da molti punti di vista al situazionismo di Debord, e a quelle che il filosofo francese chiamava “derive psicogeorgrafiche”, diretta emanazione di quello che prima veniva chiamato più semplicemente vagabondaggio urbano.
In PlayTime ci si sposta da un (non) luogo all’altro di una Parigi totalmente immaginaria, priva di ogni segno identitario, rimodellata secondo i dettami dell’architettura modernista e razionalista uguale in tutto il mondo (come mostrano i poster pubblicitari di diverse città del mondo affissi in una sorta di agenzia di viaggio).
Ci si sposta seguendo un po’ una rumorosa comitiva di turiste americane, un po’ Hulot, un po’ altri personaggi che si passano costantemente un testimone invisibile, in un gioco perfettamente coreografato di spostamenti che ci portano dall’aeroporto di Orly in un grande palazzo di uffici, e di lì in un analogo palazzo dove si svolge una fiera di arredamenti da ufficio, e poi ancora in appartamenti ultra-moderni caratterizzati da enormi finestre vetrate, che Tati ci fa osservare dalla strada come fossero schermi televisivi, e poi ancora in un ristorante elegante e alla moda nella serata della sua inaugurazione, nel quale i lavori dell’architetto che si è occupato della ristrutturazione sono tutt’altro che completati o funzionali, e dove si scatenerà - in una versione ancor più parossistica di quanto non avveniva in Mio zio - un caos irrefrenabile e gioioso che farà crollare definitivamente (e letteralmente) ogni illusione di rigore, controllo e precisione della città fino a quel momento descritta, a tal punto da far sembrare gli avvenimenti di Hollywood Party (a sua volta fortemente debitore di Mio zio) un simposio di attempati discettatori di filologia romanza.
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È ovvio che Tati, raccontando quella Parigi tanto immaginaria da essere stata ribattezzata “Tativille”, abbia preso di mira quel processo di modernizzazione della società francese, e mondiale, che ha progressivamente fatto perdere identità a persone, luoghi, città e intere nazioni e culture, rendendo tutto e tutti uguali a tutto e tutti gli altri.
Barbara, la turista americana che è una dei personaggi principali e più riconoscibili del film, mentre attraversa questa Parigi anonima e irreale, cerca solo di fotografare una vecchia fioraia, unico elemento sbucato da un presente reale che è già un passato, e s’interessa a tutti quei personaggi - che poi sono tutti quelli che fanno lavori umili e manuali, in opposizione all’assurdo funzionalismo aziendale degli impiegati e dei dirigenti già imbevuti di regole e marketing prima ancora di saperlo - che stonano con l’omologazione che la circonda.
Tati parte col suo film raccontando un mondo asettico, astratto e geometrico, si diverte a raccontare come tutto quel lavorìo razionalista e modernista, tutto quell’inquadramento e quell’omogeneizzazione, sono comunque destinati a soccombere alla una vita e un caso che reclamano le loro esigenze, trasformando Tativille in una giostra, in un circo vagamente felliniano, punto d’incontro tra passato e presente, ordine e caos. Che però, apparentemente, non ha uno sbocco ma fa solo girare tutti in tondo, sebbene con più allegria e felicità di quando non fosse prima.
Soluzioni a questo incontro critico, Tati non ne aveva. A più di cinquant’anni di distanza, non ne abbiamo trovate nemmeno noi. Resta, ancora oggi, la gioia sublime e assoluta di abbandonarsi al nonsense surrealista di Play Time, alle sue gag sottili e stralunate, che a volte sono quasi nascoste all’interno della partitura complessiva, altre sono più sfacciate, ma sempre coerenti a quello stravagante, profondo, composito, labirintico e caleidoscopico universo creato da Jacques Tati.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival