Mon Oncle: non solo un film comico, ma quasi un film di fantascienza

30 maggio 2016
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Abbiamo rivisto, in occasione dell'Omaggio a Tati da giugno nei nostri cinema, uno dei soprendenti capolavori del regista e attore francese.

Mon Oncle: non solo un film comico, ma quasi un film di fantascienza

A rivederlo oggi, a quasi di sessant'anni dalla sua uscita, Mon Oncle pare quasi un film di fantascienza: figuriamoci che effetto ha potuto avere sul pubblico al momento del suo debutto nelle sale di Francia e del mondo, nel 1958.
La modernità quasi profetica del film di Jacques Tati la si afferra fin dalle primissime immagini, con quei titoli di testa affidati ai cartelli stradali, e con quell'immediata contrapposizione tra una Francia in via di dismissione, ma ancora vivissima (che è quella di Monsieur Hulot, quella del distretto parigino di Saint-Maur-des-Fossés), e quella iper-moderna e futurista degli Arpel.

Complice un periodo storico nel quale la prima grande rivoluzione tecnologica del XX secolo, quella dell'elettronica di consumo, aveva ispirato una spinta futurista che aveva influenzato design e stili di vita, Tati mette in scena un mondo, quello degli Arpel, che è una versione identica e appena un po' lo-fi delle distopie immaginate da tanta fantascienza esistenziale del cinema di oggi; da quei film dove lo stile Apple è portato all'estremo, dove tutto è lindo, razionalista, candido e ordinatissimo per raccontare l'omologazione e l'afasia degli individui.
Un mondo che, invariabilmente, viene minacciato da qualche irregolarità, emozionale e/o genetica, comunque analogica. Da quella che si può tranquillamente definire, anche in Mon Oncle e nel comportamento di Monsieur Hulot, l'anarchia del mondo e della vita reale e non sintetici: quella vita che freme di biciclette e banchi di verdura e di chiacchiere e di discussioni nella piazza dove affacciano casa di Hulot e il bistrot Chez Margot, con le sue bière de luxe, i suoi beaujolais e il suo billiard ben pubblicizzati in vetrina.

Nella vita degli Arpel, tutto è pre-ordinato e pre-definito, dai sentierini che gestiscono gli accessi in giardino ai parcheggi della fabbrica di Monsieur Arpel, e nell'uno e nell'altro caso l'irrompere morbido e silenzioso di Hulot, con la sua irregolarità anche di vita (sua sorella, la moglie di Arpel, lamenta il fatto che non abbia un lavoro fisso o una moglie), ne sconvolge i sensi e le direzioni. Ne spezza un ritmo, che è quello veloce e nevrotico del tempo e del lavoro, scandito da un sonoro che mette in evidenza ticchettii ritmici di ogni genere. Ne mette in evidenza il ridicolo connaturato in un'ansia che, capiremo, è anche e soprattutto sociale, borghese.
E a capirlo lo si capisce benissimo nella sequenza del party in giardino, nella quale Tati anticipa anche un altro capolavoro della comicità come Hollywood Party, tanto nella satira su un certo tipo di mondo e di socialità, quanto nel proporre Hulot come l'elemento eversivo che poi sarà, in maniera ancora più esplosiva e consapevole, il Hrundi Bakshi di Peter Sellers.

Fantascienza o meno, critica sociale o meno, a rivedere Mon Oncle si rimane a bocca aperta, non solo per la sua modernità ma per la genialità senza tempo di mille piccole invenzioni. Dalla meraviglia di due finestre a oblò che sembrano occhi, alla contrapposizione tra un canarino che canta e un pesce (finto) che sputa, alla radicalità della gag sulla vicina di casa scambiata per un ambulante marocchino di tappeti, passando per un calore umano gradevolmente tiepido e confortante: quello del rapporto tra Hulot e la figlia della sua portinaia, ad esempio, ma anche a quello, quasi commovente, che nel finale ritrovano in extremis Arpel e suo figlio, mentre Hulot viene dismesso, delocalizzato, ma la sua eredità anarchica mostra i suoi frutti.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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