Per il mio bene: la recensione del debutto al cinema di finzione di Mimmo Verdesca
Autore di premiati documentari sul cinema di grande spessore culturale ed emotivo, Mimmo Verdesca firma con Per il mio bene una storia al femminile nel suo primo lungometraggio di finzione. La recensione di Daniela Catelli.
Giovanna è una donna forte e affermata, che gestisce in prima persona l’azienda del padre defunto padre per la lavorazione della pietra naturale anche se dietro questa sua apparente realizzazione nel lavoro si nascondono delle crepe, che coinvolgono anche il rapporto con la figlia adolescente e con la madre, costrette quasi ad ammirarla da lontano. Tutte le sue certezze crollano quando si scopre gravemente malata e deve chiedere alla madre aiuto per un trapianto di fegato. A quel punto scopre nel modo peggiore di esser stata adottata e decide di fare il possibile per rintracciare la madre naturale.
Autore di bellissimi documentari su alcuni protagonisti della storia del nostro cinema di un tempo, capace di mostrarne il lato umano sopra tutto il resto, Mimmo Verdesca arriva al suo primo film di finzione con lo stesso sguardo, sensibile e attento alle sfumature dei rapporti che tutti condividiamo, se non come genitori, almeno come figli. Per il mio bene è uno sguardo sul femminile che racconta diversi modi di essere donne, quattro età della vita e tre maternità di tipo diverso. La storia è incentrata su un nucleo famigliare che sembra bastante a se stesso, una situazione in cui molte si trovano a vivere: quando, magari dopo la fine di una storia e senza aver ritrovato un nuovo compagno, incapaci di accontentarsi del meno peggio decidono di bastare se stesse e si fanno madri e padri, ricoprendo sia pure a fatica tutti i ruoli. Per il mio bene mette in scena una realtà poco presente nel nostro cinema, senza voler condannare la figura maschile, nel film marginale o rappresentata nell’anziano freddo e avido interpretato con grande gusto da Leo Gullotta, ma senza pregiudizi ideologici ci porta all’interno del mondo un po’ buio di una donna sull’orlo di una crisi decisiva. La malattia, il terribile evento che mette tutto in discussione e ci pone di fronte alla nostra mortalità, in questo caso fa affiorare il senso di vuoto che la protagonista nasconde da tempo. La scoperta in età matura che i propri genitori non sono quelli biologici, come ha sempre creduto, la mette di fronte a un bivio: per salvarsi, per il suo bene ma anche per quello di sua figlia, dovrà ritrovare la madre che l’ha abbandonata appena nata e chiederle un atto di amore che appare improbabile.
La parte più affascinante del film è proprio l’incontro/scontro tra due estranee, che devono conoscersi e possibilmente amarsi: di fronte Giovanna, la cui madre adottiva è dolce e accudente, si trova quasi una selvaggia, una donna arrabbiata e trascurata, che si è chiusa in casa e non vuole vedere nessuno. Uno di quei personaggi “strani”, scostanti e rancorosi che vivono nelle nostre città e di cui non sappiamo cosa li abbia ridotti così, quando e cosa un evento abbia scatenato in loro una depressione che li ha indotti a lasciarsi andare, a escludersi dal mondo e ad accumulare cose per riempire chissà quale vuoto. Nel chiaroscuro quasi crepuscolare di questo film che anche nei momenti di luce sembra provare una sorta di ritrosia, Verdesca dirige con grande bravura due attrici di provenienza ed esperienze diverse, che si dimostrano all’altezza del compito: Barbora Bobulova, che torna protagonista al cinema con un ruolo in cui si cala con credibile forza e fragilità, e la straordinaria Marie Christine Barrault, 80enne, che mancava nel nostro cinema dal 1993, anno di La prossima volta il fuoco di Fabio Carpi, che ha lavorato coi più grandi registi europei, è stata candidata all’Oscar e continua a calcare le tavole del palcoscenico.
Verdesca e i suoi coautori, Monica Zapelli e Pierpaolo De Mejo (nipote di Alida Valli, protagonista di un premiato documentario del regista), le offrono un ruolo difficile e duro, che solo una grande attrice poteva ricoprire e abbracciare, come ha fatto lei, con tutta se stessa. Ci sono momenti, nel loro rivelarsi l’una all’altra, negli occhi e nel volto di entrambe, che fanno venire letteralmente la pelle d’oca. Se fossimo a teatro, scatterebbe spontaneo l’applauso. Si mettono a nudo le donne di Per il mio bene, senza temere di mostrarsi vulnerabili, sgarbate, sgradevoli ed egoiste, perché da una madre, biologica o adottiva che sia, ci si aspetta di essere amate e riconosciute a prescindere da tutto, perché è a partire dal nostro legame con lei che costruiamo la nostra identità. Il viaggio di Giovanna ci riguarda tutte e tutti, maschi e femmine, così come il suo rapporto con la figlia Alida, con la dolce Lilia che l’ha cresciuta, con chi l’ha messa al mondo e non l’ha voluta. Si vede come un giallo dell’anima Per il mio bene, richiede un’attenzione non distratta, ma se si decide di intraprendere questo viaggio assieme a Giovanna, se ne uscirà stranamente appagati. Anche perché è raro vedere nel nostro cinema tanta attenzione per queste tematiche. L’ottimo cast, che comprende (e meritano entrambe la citazione) Stefania Sandrelli e Sara Ciocca, e a cui Mimmo Verdesca ha dato i nomi di alcune delle sue muse, ci lascia dopo un bel finale poetico sulle note di “La gabbia”, cantata da un’altra grande ed enigmatica donna come Mina, che ci ricorda che si può essere fragili senza sentirci in colpa e che la nostra forza nasce dalla volontà di conoscerci, per quanto male questo possa fare.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità