Palazzina LAF: la recensione del film d'esordio alla regia di Michele Riondino
Un film dove a fare la differenza sono l'attenzione ai dettagli, e la voglia di mettere il cinema (civile sì, ma anche grottesco e surreale) prima del messaggio, per farlo risuonare meglio. La recensione di Palazzina LAF di Federico Gironi.
Da Leonardo Da Vinci a Arthur Conan Doyle, da Charles Bukowski a Giorgio Armani, sull’importanza dei dettagli si sono espressi in tanti, nel corso della storia.
Paul Auster e Stephen King hanno detto qualcosa di molto molto simile, affermando che la verità è nei dettagli.
Dirlo qui significa voler sottolineare come in Palazzina LAF, suo esordio alla regia, Michele Riondino ha avuto l’intelligenza di stare attento anche alle piccole cose, ai particolari.
Uno su tutti, il nome del suo protagonista, Caterino Lamanna: un nome bellissimo, antico e grottesco al tempo stesso, capace di raccontare, da solo, tantissimo sulla persona che lo porta e le vicende di cui è protagonista.
Siamo nel 1997 - a dircelo ci sono le auto, i pandini come le Thema, ma anche Cloris Brosca alla televisione - e Caterino è un operaio dell’ILVA di Taranto. All’ombra dell’ILVA Caterino ha sempre vissuto, letteralmente.
Per Caterino non c’è altro mondo all’infuori dell’ILVA, del lavoro, della sua giovane fidanzata Anna. Di sogni piccolissimo borghesi, post-proletari, come lasciare la masseria diroccata che gli è casa per trasferirsi in città. Sposarsi, al limite, anche se la voglia non è tanta.
Caterino se un operaio muore sul lavoro pensa che se uno non è capace, in acciaieria non ci deve andare. I sindacati sono qualcosa di lontanissimo dal suo orizzonte, nonostante il fermento che lo circonda.
Caterino è l’uomo che fa al caso del suo quasi coetaneo Giancarlo Basile, colletto (quasi) bianco senza scrupoli, dirigente agro-rampante che lo inizia a usare come spia per capire che stanno preparando, quei maledetti sindacalisti, chi sia che fomenta il malcontento nell’azienda. Quel che riceve Caterino in cambio sono privilegi di piccolo cabotaggio: una pseudo-promozione con tanto di pandino aziendale prima, e poi il collocamento nella palazzina del titolo poi: uno spazio surreale, nel quale l’azienda spedisce i lavoratori che vorrebbero ricollocare ma che non accettano il demansionamento, e che sono condannati a una pena solo apparentemente paradisiaca: trascorrere lì l’orario di lavoro, senza avere niente di niente da fare.
Una cosa del genere l’abbiamo vista di recente nel documentario di Erik Gandini After Work: nel ricchissimo Kuwait della piena occupazione c’è gente pagata dallo stato per lavorare in enti e ministeri, ma che lì non ha una mansione. Il surreale della situazione era già evidente lì, e sempre lì s’intuiva la follia di chi quella situazione l’ha pensata, e quella più patologica ancora che rischia chi quella situazione la vive.
Quello che Riondino racconta della palazzina LAF, nella sostanza, è vero. E la sua è una denuncia. Il suo è un cinema civile, dato che si premura anche, giustamente, di ricordare che luoghi come quello esistono ancora, a venti e più anni di distanza da quanto raccontato nel suo film.
Eppure sbaglierebbe chi pensasse a Palazzina LAF, per temi e motivazioni, come a uno di quei tanti film dall’impegno rigoroso e un po’ plumbeo, improntati a un realismo grigio, documentaristico, dove la denuncia, il tema, fanno il film, che per il resto rimane spoglio e essenziale.
Al contrario: quello di Riondino è un film mette il cinema prima di tutto, e che usa la commedia, e il grottesco, per raccontare la sua storia.
Nel programma della Festa del Cinema di Roma, dove Palazzina LAF è stato presentato in anteprima, per parlare del film sono stati evocati gli spettri dell’Elio Petri di La classe operaia va in Paradiso, e quelli del suo (ma non solo) Gian Maria Volonté. E farlo non è stata affatto una mossa unicamente promozionale e di incentivo al film.
Il parallelo tra Lulù Massa e Caterino Lamanna è chiaro e evidente: solo che per Caterino ogni possibilità di presa di coscienza (di classe, ovviamente, ma non solo) è impossibile. Perché i tempi sono cambiati, e perché Caterino, facendo quello che fa, fa (pensa lui) il bene dell’azienda, l’unico che concepisce, e perché se finisce sul giornale in cronaca giudiziaria, lui, è contento perché è diventato famoso, e già si vede al Maurizio Costanzo Show.
L’analisi politica e antropologica di Riondino mi pare non abbisogni di ulteriori spiegazioni da parte mia.
Se quel che Riondino racconta è giusto e importante, questo non diventa mai per lui un paravento dietro al quale nascondere mancanze, né l’alibi per tralasciare qualcosa che al cinema lo è altrettanto: un’idea di forma, di stile, di genere.
Il modo in cui Riondino gioca col tono di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene, senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore.
Ancora un volta, il segreto sta nella cura per il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino Lamanna.
La cura del dettaglio, in Palazzina LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina Limosani.
Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta.
La si vede nel modo in cui Riondino, dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival