Nope: la recensione del film di Jordan Peele
Dopo Scappa - Get Out e Noi, lo sceneggiatore e regista americano torna al cinema con un film spiazzante e sorprendente, che ragiona più sulle dinamiche dello show business e dello sguardo che sulle questioni razziali dei film precedenti. Recensione di Federico Gironi.
Mentre vedevo Nope, e anche dopo, mi sono trovato a pensare molto spesso a Cigarette Burns, che è lo straordinario episodio diretto da John Carpenter all’inizio degli anni Duemila per la serie tv Masters of Horror, quello in cui si parla di un film “maledetto” che fa impazzire chi lo vede e che si intitola La Fin Absolue du Monde (non casualmente anche il titolo del blog che in passato tenni su questo sito), e in cui a un certo punto Udo Kier mette le sue budella al posto della pellicola in un proiettore.
E non ci pensavo perché, di recente, Jordan Peele ha redarguito i suoi giovani fan senza cultura né memoria, che lo acclamavano come miglior regista horror della storia, rispondendo loro “E allora Carpenter?”.
Io non so se anche Peele abbia pensato a Cigarette Burns, mentre scriveva Nope, ma di certo, per quanto in apparenza lontanissimi come storia e atmosfere, i due film hanno molto in comune. E di certo qualcosa nel direttore della fotografia interpretato da Michael Wincott, quello che si chiama Antlers Holst, ossessionato dall’idea di riprendere l’irriprendibile, e vestito un po’ come Christopher Doyle, riporta direttamente a quella cosa di Carpenter.
Nope, che in estrema sintesi è la storia di un gruppo di persone che cercano di riprendere un UFO per vendere il footage a qualche show tipo quello di Oprah e diventare così ricchi, con Cigarette Burns ha in comune una cosa fondamentale: l’atto del guardare. Guardare qualcosa che ci affascina tanto più sappiamo essere pericoloso, potenzialmente e praticamente mortale, e dal quale facciamo fatica a divertire lo sguardo.
Cos’è quella cosa, in Nope? Un ufo, certo. Ma cosa rappresenta? Cigarette Burns parlava dell’ossessione per il cinema, Peele dà l’impressione di voler allargare il ragionamento: non solo cinema, ma l’intero show business. E di più: a quella pulsione scopica che, complici anche internet e i social, ma connaturata da sempre all'essere umano, diventa sempre più morbosa, attratta da ogni forma di tragedia, di calamità, di disgrazia.
In Nope il personaggio principale, l’OJ di Daniel Kaluuya, capisce presto che non guardare (non guardare direttamente, senza la mediazione di uno schermo: dato fondamentale) è la chiave per sopravvivere.
Al suo opposto c’è il personaggio di Steven Yeun, quello di un ex attore bambino con una storia tragica alle spalle, raccontata da Nope in un prologo enigmatico e inquietante, che ha rischiato la sua vita per lo show business, che della sua storia (e dalla perversione morbosa della gente) ha fatto museo e fonte di reddito, e che nel nome del denaro, ma ancor più dello spettacolo, metterà di nuovo la sua vita a repentaglio con il peggiore degli esiti.
Perché quella cosa lì - quell’ufo, quello spettacolo, quel mondo di esibizione senza scrupoli e di sguardi morbosi e ossessionati - è una bestia, brutta, che non si può addestrare o addomesticare.
OJ, invece, addestra i cavalli. Lui e la sua famiglia sono i discendenti del fantino afroamericano ripreso al galoppo Eadweard Muybridge nel 1878 nella serie di fotografie note come «Il cavallo in movimento», considerato il primo esempio di cinematografia mai realizzato nella storia.
Quindi OJ è legato al cinema, da sempre. E siccome di sono di mezzo i cavalli, in particolare è legato al western, che come ricordato anche di recente da Alberto Barbera, nel corso della conferenza stampa di presentazione del Festival di Venezia 2022, è il genere più quintessenzialmente cinematografico.
E quindi Peele, che giustamente le questioni razziali non le mette mai da parte, anche se qui sono secondarie rispetto al resto, sovverte anche l’immaginario comune, legando una famiglia afroamericana non solo al cinema ma alle sue stesse origini, e al genere più cinematografico di tutti, quello dove oltretutto i neri, storicamente, non sono mai stati granché presenti.
Come l’oggetto volante che racconta, Nope è un film complesso e mutevole, dotato di un’organicità vorace, capace di comprendere e assorbire e catturare moltitudini di sguardi, e di rivelarsi in forme sorprendenti.
Peele, che pure alla teoria non è mai stato di certo alieno (no pun intended), non è forse mai stato così teorico come in questo suo nuovo film. Un film che, da un punto di vista puramente superficiale e spettacolare, ne conferma la grandissima abilità di narratore, e la capacità di generare e mantenere a lungo tensione e inquietudine, e di mettere sullo schermo immagini di grande potenza nella loro solo apparente essenzialità.
Ma, soprattutto, un film che ragiona senza troppe ciance o giri di parole, ma anzi con una certa qual, pure elegante, brutalità, su questioni centrali per il cinema e per la società dei nostri giorni. Spingendo a rfilettere su cosa e come guardare, sulle ansie del consumo, e sui rischi che corriamo nell’uso sconsiderato dei nostri sguardi, che sono poi, alla fine dei conti, quelli che costruiscono il nostro mondo e la nostra realtà.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival