Non sono quello che sono: recensione della reinvenzione di Edoardo Leo di Otello di William Shakespeare
Edoardo Leo trasforma l'Otello di William Shakespeare in un romanzo criminale parlato in romanesco che condanna il femminicidio. La recensione di Carola Proto.
Sono trascorsi più di 400 anni da quando William Shakespeare ha scritto l'Otello, una delle sue tragedie più celebri che è stata messa in scena più e più volte nel corso dei secoli, solleticando il palato di grandi mattatori e di importanti registi. Poi la pièce è approdata al cinema in una pluralità di adattamenti, che vanno dalla versione con Laurence Olivier a quella di e con Orson Welles, fino ad arrivare all'Otello di Kenneth Branagh in cui il Moro aveva il volto di Lawrence Fishburne.
A queste trasposizioni dobbiamo aggiungere Non sono quello che sono, una reinterpretazione in chiave quasi contemporanea che Edoardo Leo sognava di realizzare fin dagli inizi della sua carriera di regista. Il momento giusto per dedicarsi a un lecito "tradimento" del testo originale è arrivato solo di recente, ispirato da una realtà nella quale il femminicidio e la violenza sulle donne sono all'ordine del giorno. Leo, e ciò lo rende amabile ai nostri occhi, è un autore che sta dalla parte delle donne e che ha deciso di raccontare non la tragedia di Otello ma la tragedia di Desdemona, casta fanciulla che perdona all'uomo che ama gli scatti d'ira e le percosse proprio come tante di noi, che hanno giustificato e giustificano schiaffi e grida.
Non sono quello che sono, quindi, non cerca l'assoluzione per il marito geloso ma la condanna, privando il personaggio del diritto alla pietas. Ma non basta, perché la versione contemporanea di Otello, che è diventato il capo di una banda criminale che si arricchisce spacciando droga, soffre di un disturbo squisitamente contemporaneo, e cioè il disturbo narcisistico di personalità. Inoltre è un abile manipolatore, anche se Iago è molto peggio di lui.
Al di là di questa rilettura, ciò che colpisce nel film di Edoardo Leo è il contrasto fra una messa in scena e uno stile di regia all'insegna del realismo e quasi documentaristici e una recitazione resa teatrale dal testo che gli attori si trovano a recitare. Leo rispetta fedelmente la pièce di partenza, inserendosi però fra un dialogo e l'altro con la sua macchina da presa, che immortala un non luogo dove il mare e il cielo grigio formano una specie di limbo nel quale non c'è spazio per il perdono. E infatti Iago non perdona a Otello di avergli preferito Michele (il Cassio di turno), mentre Otello non perdona all'innamorata Desdemona un tradimento che forse non è nemmeno avvenuto.
Senza privare il racconto del suo afflato epico, il regista gira un suo personalissimo romanzo criminale, collocando la vicenda in un contesto in cui le passioni sono assolute e il confine fra il bene e il male è labile. La scelta del genere noir lo aiuta a dipingere uno scenario a tinte fosche, nel quale una vita umana vale poco o nulla e la giustizia non è quella istituzionale. Nel noir, inoltre, i sentimenti sono assoluti e, se c'è una pistola, significa che sparerà.
È giusta e vincente la scelta di Edoardo Leo di eliminare le comparse per isolare i personaggi davanti a un mare d'inverno o in un ristorante del litorale laziale, perché in questo inquietante isolamento i sentimenti diventano assoluti e l'unica lingua possibile sembra quella della vendetta.
A proposito di lingua, Leo ha fatto un lavoro certosino su quella del Bardo, conservando integralmente il testo della pièce ma traducendolo in romanesco. Era questa la grande scommessa di Non sono quello che sono, e ci sembra che sia stata vinta, anche quando il dialetto della capitale d'Italia lascia il posto alla lingua napoletana nelle scene in cui appare Antonia Truppo. Quanto a Edoardo Leo attore, lo ritroviamo nei panni di Iago, uno Iago davvero odioso perché misogino più di Otello.
Si vede in Non sono quello che sono la grande dedizione di Leo al progetto, così come la voglia di lanciare un messaggio. Viene da chiedersi, tuttavia, se gli uomini di domani, abituati al ritmo forsennato dei blockbuster contemporanei, avranno voglia di accettare il passo di un dramma comunque seicentesco che parla sì il linguaggio del cinema ma richiede concentrazione e chiama alla riflessione. È pur vero che l'arte dev'essere uno stimolo, e per esserlo ha bisogno di alzare l'asticella, sperando in un salto in alto da parte dello spettatore e in una presa di coscienza di comportamenti che possono solo essere definiti malati e come tali appaiono.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali