Non credo in niente: recensione del film

25 settembre 2023
2.5 di 5
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Un'opera prima italiana giovane e realmente indipendente, tanto interessante e coraggiosa sul piano della forma quando un po' superficiale e ombelicali su quello del contenuto: un problema comune a tanto nuovo cinema italiano. La recensione di Federico Gironi.

Non credo in niente: recensione del film

Mi pare di poter dire che Non credo in niente - un film veramente indipendente e fatto da giovani, cosa che in in Italia è rarissima, e che già solo per questo meriterebbe di essere visto - sia molto significativo di quel che oggi i nuovi registi vedano nelle possibilità del cinema. E spero non me ne vorranno quindi gli autori, dall'esordiente regista Alessandro Marzullo in giù, se lo userò qui anche, ma non solo, come punto di partenza per alcune riflessioni generali sul nuovo cinema italiano.

A proposito di partenze.
Di fronte alla frase in esergo di Zygmunt Bauman che apre il film (“Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro”), ammetto di aver avuto un brivido. Mi è parsa una mossa abbastanza ingenua, da neolaureato in Scienze della Comunicazione, un pelo arrogante e anche fuori tempo massimo, visto che oramai la modernità liquida di Bauman è superata da quella che viene definita oramai modernità gassosa (titolo di un saggio di Francesco Morace).
Poi ho capito che quella lì era una dichiarazione estetica e poetica: perché tutto Non credo in niente è, volutamente, una successione di episodi mal collegati tra loro.
Al centro della trama, se così la possiamo definire, le vicende parallele di una manciata di personaggi (due musicisti che lavorano nelle cucine di un ristorante; un aspirante attore e il suo logorroico amico meccanico; una hostess che sogna di diventare ricca) raccontate in maniera fortemente impressionista e, appunto, frammentata tanto da rendere ermetico il racconto. Vicende che si svolgono nella notte romana dei soliti quadranti arty (l’Esquilino, il Pigneto, il Prenestino) e che finiscono per trovare un punto di traiettoria comune nello zozzone (così a Roma si chiamano i camioncini che, di notte, stan parcheggiati in strada e vendono panini untissimi e grassissimi e dalla qualità alimentare discutibile) gestito da una sorta di filosofo all'amatriciana.

Fermo restando che personalmente richiederei una moratoria sulle storie parallele, sulle notti romane dei soliti quadranti e magari pure sulle figure di questi filosofi da strada che impartiscono garbate lezioni di vita basate sul buon senso popolare (ma queste sono idiosincrasie soggettive), quello che si nota chiaramente in Non credo in niente è il netto divario che separa la messa in scena da quello che viene raccontato.
Ci sono citazioni implicite e esplicite di Cassavetes, nel film di Marzullo, ma quello che colpisce subito, l’occhio per primo e poi tutto il resto, è che davvero Non credo in niente è girato in maniera radicalmente diversa da come il cinema italiano ci ha abituati: e se nei primi minuti il riferimento pare quello delle stilizzazioni al neon di un Nicolas Winding Refn, appare chiarissimo in breve tempo - per via del 16mm, della grana, delle angolazioni particolari, delle scelte fotografiche del DOP polacco Kacper Zieba - che il modello di Marzullo è Wong Kar-wai. Il Wong metropolitano e inquieto di Hong Kong Express e Angeli perduti.

Ora. Fanno fatti i complimenti a Mazullo per riferimenti e obiettivi, e tutto sommato anche per il modo in cui la sua operazione estetica non appare velleitaria: Non credo in niente è davvero bello da vedere, e testimonianza di un buon talento visivo e fotografico.
Proprio per questo, però, si rimane delusi quando, a dispetto di quello che si vede, si attende qualcosa che non arriva mai: non solo una storia, per quanto impressionista e ermetica, ma dei sentimenti, dei personaggi, della capacità di andare oltre la superficie del racconto e delle figure.
Certo, Non credo in niente è un film chiaramente generazionale, io sono quello che oggi viene (erroneamente, ma non importa) definito un boomer, e magari sono io che non capisco (niente). Però, se è chiaro che Marzullo ha voluto ritrarre e raccontare il senso di precarietà, di assenza di riferimenti, di smarrimento e di frustrazione e forse perfino di aspirazioni della sua generazione, quella dei quasi trentenni, non posso fare a meno di pensare, convintamente, che questo muoversi su terreni instabili verso una meta oscura e ignota, se pur di meta possiamo parlare, diventi troppo spesso una giustificazione per crogiolarsi in una vaghezza ombelicale.

Sicuramente Marzullo agisce, invece, tanto che ha realizzato questo film: ma al cinema, questo atteggiamento si trasforma in una superficialità di scrittura che pare essere trasversale.
Mi spiego: Marzullo gira bene e con una personalità, come lo fanno l’Alain Parroni di Una sterminata domenica, o il Tommaso Santambrogio di Gli oceani sono i veri continenti, o il Simone Bozzelli di Patagonia. Il problema è che questi giovani registi sembrano peccare tutti dello stesso difetto, che è un difetto di retorica e superficialità e riproposizione di vecchi modelli nelle storie che vogliono raccontare. Storie nelle quali il grande senso di disagio  e di indeterminazione di una generazione fa da base e da struttura allo stesso tempo, diventando la grande giustificazione per non parlare di niente di un po’ più complesso, profondo, universale.

Per tornare a Non credo in niente e fare un facile parallelo: pensiamo appunto a Hong Kong Express e Angeli perduti, e a quando profondi e universali sono quei personaggi e quei sentimenti, e quanto quelli di Marzullo rimangano, suo malgrado, superficiali e autoreferenziali. E a quanto certe battute messe in bocca ai personaggi di questo film siano francamente inascoltabili.
In breve: i nostri giovani autori, che giustamente hanno voluto lavorare sull’estetica, dovrebbero ricominciare a pensare anche a scrittura e contenuto.
Il problema, temo, è anch'esso generazionale, legato alla modernità appunto non più liquida ma gassosa, alla banalità superficiale delle immagini social, a un certo vittimismo narcisista che a volte vanifica le istanze alla base.
Non sono, questi, tutti, difetti di Non credo in niente: un film che piace considerare un punto di partenza, un tentativo ambizioso e coraggioso, che speriamo possa evolvere in un’opera seconda capace di confermarne i pregi e correggerne i difetti.

Non credo in niente
Il Trailer Ufficiale del Film - HD


  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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