Mi chiamo Francesco Totti: la recensione

17 ottobre 2020
3.5 di 5
4

Quello diretto da Alex Infascelli, e presentato alla Festa del Cinema, è un documentario embedded che non parla solo dell'ex Capitano della Roma, ma di una città intera, e dei romani, e di un pezzo di vita che è passato per tutti coloro lo hanno condiviso. La recensione di Federico Gironi.

Mi chiamo Francesco Totti: la recensione

“‘Sto tempo è passato. Pure pe’ voi però.”
La chiave di Mi chiamo Francesco Totti, il suo segreto, sta tutto in questa frase del Pupone.
Il tempo di cui parla Totti è quello della sua carriera, del suo rapporto col calcio, e quindi della sua vita tutta (lo vediamo, in un filmino di famiglia, prendere a calci un Super Santos sulla spiaggia di Porto San Giorgio quando a malapena si reggeva in piedi da solo). Ma in particolare è quello dei quasi venticinque anni nel corso dei quali ha indossato la maglia della Roma: dall’esordio in serie A avvenuto in Brescia-Roma  il 28 marzo 1993 fino alla sua partita di addio, la Roma-Genoa del  28 maggio 2017.

Il documentario di Alex Infascelli parte con un Totti che parla, idealmente, alla vigilia di quel match, e della grande festa in suo onore che seguirà, e con quella festa, e la commozione generale (di Totti, della sua famiglia, dei suoi amici e compagni, del pubblico all’Olimpico e pure di quello in sala - ma non di Spalletti) che ne consegue. Venticinque anni passati a giocare a calcio in serie A per Totti, con uno scudetto e un campionato del mondo nel palmares, e venticinque anni di vita: suoi e dei milioni di romani e di italiani che ne hanno seguito le magie sul campo da gioco.

‘Sto tempo è passato. Pure pe’ voi però.
La chiave del film è quella di fare dello spaccato di vita e carriera di uno dei più grandi calciatori italiani di tutti i tempi, un tranche de vie che riguardi chi lo sta guardando, e che a ogni azione, a ogni tocco e a ogni gol lega un pezzo della sua esistenza. Il segreto, allora, è quello dell’identificazione.
E a permettere l’identificazione è la straordinaria normalità di Francesco Totti, la sua umanità che nessuna mitizzazione potrà mai camuffare, l’essere stato l’ultimo grande campione a rimanere essere umano, e bandiera e simbolo di una squadra - contraddizioni comprese - in un mondo, quello sportivo, dove i campioni sono diventati gelidi automi o uomini-azienda che mettono loro stessi prima delle squadre o dei risultati.

Certo, quello di Infascelli è un documentario embedded, di parte, ma non è inutilmente apologetico. Non ha il respiro epico di The Last Dance, ma non è nemmeno propagandistico come Chiara Ferragni Unposted.
E tutto questo perché Totti non è né Michael Jordan né la Ferragni, ma è Francesco Totti, lo straordinario campione capace, a quaranta e passa anni, di essere ancora il ragazzino che giocava a paperelle con gli amici sui gradini della sua scuola elementare, a Via Vetulonia (e Infascelli, con abile furbizia, lo sottolinea con un artificio retorico sul finale del suo film). Oltre a essere uno che, al contrario di Jordan o Ferragni, e di tanti altri, è capace di strappare risate e sorrisi con la stessa naturalezza con cui fa gol su pallonetto.

Francesco Totti è Francesco Totti anche per via di questo suo essere “normale”. E allora, ecco che Mi chiamo Francesco Totti, grazie e per via di quella identificazione tra il suo oggetto e i suoi spettatori, non è solo un film su Totti. È un film su Roma; un film sui romani, sulla romanità.
Infascelli lo sa bene. Lo sa che non sta parlando di un calciatore, ma dell’VIII Re di Roma, del simbolo di una città, del catalizzatore dei suoi sogni, delle sue speranze, dei suoi successi e delle sue difficoltà.
E allora eccole, le immagini di Roma scelte da Infascelli, le più belle e pure le più retoriche: la Roma dei monumenti, delle vestigia del passato, dei tramonti e degli storni, che nasconde la Roma difficile e in crisi che tutti conosciamo, e le supera, così come il marchio Totti superava i suoi - rari - momenti di comportamento non esemplare, e quella fase finale di carriera così dura e tribolata.

E non bisogna essere romanisti, o tifosi di calcio, per comprendere quello che significa Mi chiamo Francesco Totti, quello che Totti ha rappresentato per tantissime persone, e per farsi venire gli occhi lucidi, per essere vinti da quella incredibile combinazione di talento e semplicità che ha superato e supera ogni retorica e mitizzazione di sé.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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