Memorie di un assassino: la recensione del thriller con seriak killer del regista di Parasite Bong Joon-ho
Grazie al successo di Parasite - e al distributore Academy Two - arriva finalmente nei cinema italiani uno dei primi film del regista coreano: che già nel 2003 dimostrava tutto il suo talento e la sua bravura.
C' è voluto lo straordinario successo internazionale di Parasite, e la cabarbietà di una distribuzione che ama davvero il cinema come Academy Two (che, va detto, ha preso la decisione di portarlo nelle nostre sale ben prima del trionfo agli Oscar di quel film), perché Memorie di un assassino arrivasse finalmente nei cinema italiani. A diciassette anni dalla sua presentazione in patria.
Non è il primo film di Bong Joon-ho, è la sua opera seconda, ma è il film che ne ha rivelato il grandissimo talento al mondo intero, e che ancora oggi non ha nulla da invidiare a tutto quello che il regista ha realizzato successivamente. Parasite compreso.
Memorie di un assassino è basato sulla vera vicenda che ha circondato la prima serie di omidici seriali documentata in Corea del Sud, avvenuti tra il 1986 e il 1991 nella cittadina rurale di Hwaseong, che ancora ai tempi in cui Bong ha girato il film erano insoluti e circondati dal mistero: solo pochi mesi fa, sul finire del 2019, le indagini hanno subito una svolta.
Per il tema, lo stile e certe situazioni, in molti lo paragonarono a Seven prima e, ancora di più a Zodiac dopo: ma l'unico vero punto di contatto tra i film di Bong e quelli di Fincher è che si tratta dell'opera di grandi registi, di grandi narratori per immagini. Quello, e pochissimo altro.
Straordinaria eleganza formale, bellissima fotografia, il thriller che si scioglie nella commedia, senza soluzione di continuità, col fuoco narrativo sempre tenuto fisso sui personaggi e i loro conflitti (esteriori ed esteriori), sul loro dramma umano. Tutto Parasite era già dentro a questo Memorie di un assassino. Perché si tratti di serial killer o di scalate sociali, o magari di creature giganti e mostruose come in The Host, quello che sta davvero a cuore a Bong sono i personaggi e i sentimenti che provano.
Personaggi e sentimenti che vanno raccontati con amore e passione, nel modo migliore possibile attraverso la massima cura della scrittura e per l'aspetto visivo del film, e coi migliori attori in circolazione.
I toni di Memorie di un assassino sono quelli verdastri e marroni dei campi nei quali vengono ritrovate le donne vittime di un killer seriale. Ma sono anche i grigi di certe case, certe pareti spoglie, certi ambienti cupi e un po' depressi degli uffici di polizia o di una cava, o di una fabbrica. Di certi cadaveri ritrovati dopo troppo tempo. Una paletta cromatica che aiuta alla costruzione di un'atmosfera vagamente malsana e opprimente, e al tempo stesso legata ai cicli della natura e alla speranza che questa porta con sé, quella di una vita dopo la morte.
Il più grande equilibrismo di Memorie di un assassino non è infatti quello tra i toni e i registri, tra cupezze e risate, violenze e cameratismi, tensione e momenti di stasi, dolore o respiro. No. È quello tra uno sguardo pessimista sulle cose del mondo, inevitabile nel raccontare una storia di brutali omicidi seriali senza avere la possibilità di scoprire o condannare un colpevole, su un agire spesso scorretto e sbagliato, e quello invece carico di dolente speranza su un mondo che, come che sia, deve andare avanti, continuare a cambiare, a evolversi. A vedere la natura compiere i suoi cicli e nuove generazioni di bambini prendere il posto di quelli precedenti e della loro innocenza perduta.
Un'innocenza che, in Memorie di un assassino ma non solo, è loro e solo loro, mentre nel mondo adulto, per un motivo o per un altro, sono tutti colpevoli di qualcosa, e al tempo stesso vittime dei loro errori e della loro coscienza.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival