Marie Heurtin: la recensione della toccante storia di una ragazza che passa dal buio alla luce

02 marzo 2016
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Film francese diretto da Jean-Pierre Améris con una brava Isabelle Carré.

Marie Heurtin: la recensione della toccante storia di una ragazza che passa dal buio alla luce

Jean-Pierre Améris è abituato a raccontare storie di persone con difficoltà a comunicare, afflitte da una diversità che li rende speciali, ma anche soli. Basti pensare a Emotivi anonimi, oltre a L’homme qui rit, inedito in Italia. Con Marie Heurtin – dal buio alla luce ha spinto questa sua ricerca all’estremo, mettendo in scena la storia vera di una giovane francese, nata alla fine del XIX secolo, vissuta fino all’età di 10 anni in una fattoria nella libertà più assoluta: come una primitiva, o un cucciolo selvaggio. Marie era affetta fin dalla nascita da cecità e mancanza tutale dell’udito; i genitori cercarono di crescerla con amore e vicinanza fisica, ma arrivata alle soglie della pubertà la portarono in un convento di campagna, quello delle suore di Larnay, per avere una mano.

Un caso disperato, visto che le religiose accoglievano solo ragazze sorde; l’ulteriore handicap della cecità le avrebbe scoraggiate, non fosse stato per l’intervento della coraggiosa suor Marguerite, dalla salute precaria, che vede in quell’anima imprigionata una fragilità a lei vicina. Inizia un percorso di educazione alla vita prossimo a quello di una madre nei confronti del proprio cucciolo. Un animale abituato al silenzio e all’oscurità assoluta, in balia della natura.

Un legame fisicamente assoluto, con il tatto e l’odorato unici strumenti per conoscersi, cercando di elaborare una versione riveduta del linguaggio dei segni. Un puledro brado che, una volta domato, porrà in Marguerite la fiducia assoluta di chi ha imparato a sperare nella luce cui non ambiva, non avendola mai conosciuta. Il mondo diventa un posto ben diverso, in cui riesce a trovare un suo spazio, grazie e con Marguerite. I momenti di scoperta fisica delle due sono di una violenza estrema, lo sforzo delle attrici è davvero lodevole, riuscendo a trasmettere la precarietà di un calvario, processo di anestetizzazione della paura ancestrale di vivere di Marie.

Contrastando con questa oscurità, il film di Améris è pieno di luce, con gli elementi della natura sempre in primo piano, e l’ironia ospite non casuale né episodica di una storia edificante, ma non banalmente raccontata.

La dimensione sociale è quella prevalente nel percorso delle due donne: quella di Marie è una conversione totalmente terrena alla vita, non religiosa in senso tradizionale, ma spirituale in modo eterodosso e puro. Isabelle Carré, già protagonista di Emotivi anonimi, accompagna la sorprendente Ariana Rivoire, non udente, in una interpetazione duplice di grandissimo spessore. Curiosamente, nell’anno le La famiglia Bélier, il cinema francese ha parlato ripetutamente, e con successo, il linguaggio dei segni.

Una volta ottenuto il primo sorriso da Marie, e dai genitori che per la prima volta riescono a comunicare con lei in maniera profonda, Marguerite può permettersi di sentire la stanchezza del suo sforzo sovrumano: dopo il calvario, il martirio, dopo aver regalato a Marie la socialità, quindi la vita, il regalo definitivo è quello di averla resa capace di accettare la morte.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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