Le mura di Bergamo: recensione del documentario di Stefano Savona presentato alla Berlinale
Di Covid non si parla più, e non pare ne siamo usciti migliori. Questo bellissimo documentario ci mette di fronte a quello che è stato in maniera commevente, spesso straziante, ma colpisce ancora di più quando tira le fila del discorso e parla del grande rimosso della morte. Recensione di Federico Gironi.
Ve ne sarete accorti, suppongo, ma di Covid non si parla più. C’è ancora, il Covid? Devo chiamare mia zia che fa il medico e chiederglielo.
Pure a Berlino, al festival, tutti senza mascherina. Anche io, a volte. Troppo spesso. D’altronde, non la portava nessuno, o quasi.
E allora vedere in un contesto contesto di questo genere, nel quale quella cosa lì che ha sconvolto il mondo e le nostre vite tre anni fa, vedere in questa situazione Le mura di Bergamo fa ancora più impressione. Anche perché questo documentario di Stefano Savona ha un’essenzialità radicale che si tramuta in un racconto potente, commovente, spesso straziante, ma che non ha solo nell'emotività la sua forza. Anzi.
Come ha raccontato, Savona è andato a Bergamo a girare, a documentare quello che stava accadendo con un gruppo di suoi ex studenti del CSC di Palermo, proprio nei primi mesi della pandemia: quelli più tosti, più drammatici, più mortali. Non era preparato, racconta, a quello che si è trovato di fronte, e in fin dei conti non siamo preparati nemmeno noi di fronte a immagini e racconti così vicini all'epicentro del terremoto e della tragedia da lasciare sgomenti.
Vicinissimo, eppure così rispettoso del dolore e della sofferenza, Savona è entrato negli ospedali, ha parlato con i medici, con i volontari, con gli impresari di pompe funebri, con i pazienti. Ha raccontato e documentato il durante, ma anche il dopo, quel che è accaduto ai suoi protagonisti alla fine dell’emergenza, i loro tentativi di dare un senso a quel che avevano passato, di rimettere insieme i cocci, di ragionare su come ricominciare.
Non sono solo le immagine delle persone ricoverate coi caschi, l’audio delle telefonate tra pazienti terrorizzati e medici impotenti, le parole degli anziani che non trovano la forza per combattere o che al contrario si mettono l’anima in pace di fronte alla morte, per poi magari dover ricominciare con fatica a vivere, che incrinano la nostra compostezza di spettatori, e magari ci fanno venire il groppo in gola, o le lacrime agli occhi. Nemmeno solo i racconti della morte, delle perdite, le immagini dei sacchi o delle bare.
Ci sono dettagli, parole, nel film di Savona, che in qualche modo sono più potenti e scomode del pur emozionante documento di ciò che è stato, e che tutti noi dovremmo conoscere bene, o perlomeno averne consapevolezza.
Dettagli e parole che guardano al futuro, e ci interrogano direttamente.
Si diceva “ne usciremo migliori”, ve lo ricordate? Se pure usciti ne siamo, ne siamo usciti tali e quali a prima, mi pare, se non forse più spregiudicati ancora, nell’ansia rapace di recuperare il tempo e il denaro perduti.
E allora, tagliano come lame affilatissime e poi entrano dentro straziandoci, le parole di quei medici che ammonivano: "stiamo dando il compito di decidere della vita e della morte ai medici più giovani nei triage; così facendo, attenzione, rischiamo di creare dei mostri".
O quelle della donna delle pompe funebri che, dopo l’emergenza, dice che comunque i suoi impiegati lavorano “in modalità Covid” e che “si è persa la cura”.
Fanno impressione gli striscioni con scritto Bergamo non dimentica, in una Lombardia odierna che, invece, pare aver dimenticato anche troppo.
Nella parte finale di Le mura di Bergamo, Savona concentra la sua attenzione su alcune persone che fanno una sorta di terapia di gruppo per metabolizzare quanto accaduto e cercare di migliorare presente e futuro, di far qualcosa anche per gli altri. In queste riunioni, e non poteva essere altrimenti, si parla spesso della morte, e di funerali, e di come ognuno vorrebbe il suo.
Non è una cosa morbosa. Tutt’altro. È che quei personaggi lì, e questo film qui, fanno il conti con il vero grande lascito di quella che spesso, nel film, viene chiamata semplicemente la Malattia. Ovvero con la necessità di fare i conti con il grande rimosso della nostra epoca, che è il rimosso della morte, il rifiuto della stessa.
Così facendo, Le mura di Bergamo non è soltanto un documento, una cronaca, una testimonianza storica. È qualcosa che si avvicina alla filosofia, e di cui c’era, mi pare di poter dire, un grande bisogno. A maggior ragione oggi, in quest’oggi in cui di Covid, e di morte, non si parla più
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival