La terra dell'abbastanza: recensione dell'opera prima dei fratelli D'Innocenzo

07 giugno 2018
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Una storia di formazione di due amici inseparabili nella periferia romana.

La terra dell'abbastanza: recensione dell'opera prima dei fratelli D'Innocenzo

Due ragazzi crescono come grandi amici, praticamente fratelli, sullo sfondo di una periferia romana più ariosa e accogliente rispetto al luogo comune. Sono Mirko e Manolo, hanno un genitore solo a casa che li aspetta, e partono svantaggiati per un semplice motivo, non un condizionamento sociale esterno a loro, ma tutto interno: non credono di valere molto. Per loro la costruzione di una vita senza sbattersi troppo, accontentandosi di ‘abbastanza’, è il meglio che possa succedere. Una vita da 6 meno meno. 

A cambiare il destino, e confermare la loro idea, investono una notte un passante spuntato dal nulla e finito in mezzo alla strada. Fermarsi o scappare? Mirko è insicuro, vorrebbe tornare indietro, ma Manolo ha la personalità più forte, e un padre furbetto con vista sulla piccola criminalità da cui andare a chiedere ‘cattivo’ consiglio. Una svolta da favola, con un solitario e depresso Max Tortora, Gatto e la Volpe nella stessa persona. Non solo li consiglierà di tenere la bocca chiusa - ma quale padre avrebbe fatto diversamente? -, ma per una serie di casualità li spingerà verso la scorciatoia tempestosa e definitiva, lui la chiama ‘la svolta finalmente nella vita’: entrare come apprendisti a bottega da un piccolo boss criminale della periferia, interpretato da Luca Zingaretti.

A raccontare questo canovaccio, La terra dell'abbastanza, che all’inizio pecca per un senso di già visto, due fratelli gemelli e molto giovani, Fabio e Damiano D’Innocenzo. Sembrano rendersi conto del ‘peccato originale’ di un racconto di crescita, periferia e criminalità usato e abusato allo sfinimento da cinema e televisione. Tanto da disinnescarne quasi tutti i luoghi comuni e i rischi sul cammino; la loro camera non giudica, non divide lo scenario in buoni e cattivi, distribuendo assoluzioni immeritate o colpe univoche. Le persone rappresentate sono il fragile risultato di scelte complesse e umanissimi errori, a partire da Mirko e Manolo, due bravi ragazzi rovinati dall’abbastanza. Se non ci sono cattivi stereotipati su cui scaricare l’ombra della colpa, per poi tornare a vivere come non fosse successo niente, i protagonisti non svicolano dalle loro malefatte. Sono pronti a pagarne le conseguenze.

La violenza viene mostrata sempre a distanza, trattata come un mezzo per ottenere qualcosa di grande nella vita, una distorta idea del non accontentarsi. Nessuno impone niente ai due, ma neanche hanno la fortuna di avere una guida solida. Le scelte sono sempre lì ad attenderli, quello che cambia è il ritmo frenetico con cui iniziano a trovarsele di fronte e la velocità con cui devono decidere. Il sorriso (e la familiarità) fra di loro cercano di mantenerlo, ma diventano sempre più finti, una maschera indossata per abitudine, per nascondere l'amarezza di un (presunto) rispetto e un denaro che non hanno il sapore dolce che speravano, che scambierebbero probabilmente per una delle loro chiacchiere di prima, sincere e senza ruoli. 

I D’Innocenzo masticano cinema da sempre, ma sono alla ricerca di un loro stile personale, dimostrano un bel talento visivo e una capacità nel dirigere gli attori che sorprende. Max Tortora e Milena Mancini, nei panni della madre di Mirko, sono molto convincenti, così come Andrea Carpenzano (Manolo) e Matteo Olivetti (Mirko), a cui si perdonano alcuni eccessi nevrotici in un film che quasi sempre mantiene, a partire dalla regia, una sobrietà esemplare, e come tale efficace.Sono due autori da tenere d'occhio, che attendiamo con grande curiosità all'opera seconda, non fosse che per la purezza con cui si avvicinano ai loro personaggi, mai banalizzandoli.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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