La mia vita con John F. Donovan: recensione del film di Xavier Dolan con Jacob Tremblay, Kit Harington e Natalie Portman
Primo film americano per il regista ribelle e predestinato del cinema canadese.
Xavier Dolan ha iniziato a guardare indietro, non più sempre in avanti, dopo l’esplosione del suo cinema ribelle e adolescenziale in È solo la fine del mondo. Un film in cui il suo stile urlato raggiunge il massimo, con inquadrature così ravvicinate da sfociare nel claustrofobico e con i legami di una famiglia numerosa che si sfaldano come uno spago ormai logoro. Dopo aver vissuto come una corsa continua in apnea, a ritmo di una musica ipnotica, il predestinato canadese inizia a sentire la fatica e meno la rabbia, con il chiaro bisogno di fermarsi un attimo, rimettersi in gioco andando alle radici della sua passione per il cinema.
La mia vita con John F. Donovan è il frutto di questo periodo di transizione, vittima di una campagna critica negli Stati Uniti francamente sbalorditiva e soprattutto immeritata. Si tratta, infatti, del suo film più sincero. Se il cinema di Dolan, con il passare degli anni, è sembrato sempre più la vita che si piegava alla grammatica cinematografica, qui va a indagare il momento in cui la sua vita, ancora bambino, ha iniziato a voler diventare cinema. Arrivato a trent’anni elabora pubblicamente la sua crisi di crescita, esponendo in pubblico anche le sue ingenuità, attraverso la storia di un bambino di 11 anni che somiglia molto a lui, interpretato dal connazionale Jacob Tremblay.
È il primo film americano, girato in inglese, in cui Dolan parte dalla sua lettera inviata da bambino a Leonardo Di Caprio, una storia più volte raccontata pubblicamente, ad esempio sul palco di Cannes, ricevendo il premio della giuria qualche anno fa. Era la lettera di un fan di Titanic, che qui diventa la ripetuta corrispondenza di un fan, Rupert (Jacob Tremblay), nei confronti di John F. Donovan (Kit Harington), star di cinema e televisione morto giovane e dimenticato, a causa del suo coinvolgimento in alcuni scandali, mai veramente provati e soprattutto mai perdonati, dalla feroce opinione pubblica. Dopo la sua morte, Rupert, nel frattempo diventato attore agli inizi, già con una certa notorietà, racconta in un’intervista la sua amicizia epistolare con Donovan, durata cinque anni. In questo modo porta alla luce la vita tormentata dell’attore, schiacciato dalla fama e dai pregiudizi che ha portato con sé.
Si citava prima la sincerità, e vedendo il film non si può ignorare come Dolan racconti anche la sua vita, esposta al pubblico fin da quando era bambino e recitava nelle pubblicità, nel suo Canada. Il consueto ruolo centrale del rapporto fra madre e figlio qui diventa duplice, con Rupert e John alle prese con le rispettive madri, Susan Sarandon e Natalie Portman, a rappresentare uno sdoppiamento fra il privato e il pubblico di due ragazzini che sembrano due lati della stessa medaglia. Non manca la reazione capricciosa alle critiche subite, per la prima volta, con il suo precedente film, È solo la fine del mondo, mostrando un pubblico ingrato e pieno di pregiudizi nei confronti di chi ha successo, a cui non perdona niente.
C’è poi tanta cultura pop, come altre volte nel suo cinema, come un riferimento a Harry Potter, in una scena toccante seppur un po’ trash, con protagonista Michael Gambon/Albus Silente. In un mondo in cui la fantasia e la realtà si confondono, come il cinema e la vita, quale figura saggia può essere di conforto, se non Silente in persona? In un mondo di illusioni Dolan cerca di isolare gli aspetti e i sentimenti che ci rendono noi stessi, con sincerità ed emozione, tanto che gli perdoniamo qualche ingarbugliamento o confusione narrativa.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito